Irene Ranaldi, sociologa urbana esperta di riqualificazione e mutamento fisico e della composizione sociale di aree urbane marginali (gentrification) e presidente dell’associazione Ottavo Colle che accompagna gruppi di visitatori soprattutto nelle periferie di Roma, con questo libro racconta i luoghi della salute della città di Roma.
Come afferma l’autrice nel primo capitolo (“Il turismo sanitario. Una prospettiva differente”) “la storia di ogni città e di ogni territorio può essere narrata a partire da punti di vista differenti: come disamina delle dinamiche insediative e architettoniche, come storia degli abitanti, dei conflitti e della cultura che li ha abitati, o a partire dalle visioni e azioni politiche che hanno disegnato a tavolino i destini delle classi popolari. Un aspetto da mettere in relazione con la “città di pietra” proposto dall’autrice è quello relativo alla dimensione della salute. La letteratura sul rapporto tra città di Roma e luoghi e spazi della salute, e la dialettica tra di essi, è piuttosto esigua e si limita a pubblicazioni e monografie tematiche su singoli, ancorché pochissimi, ospedali romani” (p. 26).
Con questo pregevole lavoro Irene Ranaldi cerca di colmare una lacuna storica e culturale che riguarda la citta di Roma raccontando la storia di 25 presidi sanitari sparsi in nove zone della città, ma anche di proporre un modo nuovo di narrare la città a partire dai luoghi “ignoti”. Infatti l’autrice sottolinea come vi siano molti modi di leggere la città come quello della “città inclusa strettamente legata alle sue dinamiche di potere sociali, culturali ed economiche” o quello della “città esclusa, quella fuori da queste dinamiche e che ne subisce tempi e modi” ed ancora quello della “città fatta su misura per un lavoro di genere maschile, che non tiene conto dei tempi della cura, lavori di cura in massima parte agiti dalle donne” (p. 26). La sociologa osserva come “tra la città inclusa e quella esclusa, esiste un’altra città, meno evidente, se non volontariamente nascosta. Si tratta della città, ovvero quella tenuta fuori dalla vista, perché oggetto di timore, rispettoso pudore o addirittura di vergogna: è la città degli ospedali, delle carceri e delle altre istituzioni totali create dalla società per difendere sé stessa”.
Ranaldi ha il coraggio di parlare di questa città ignota ed ignorata, spesso tenuta fuori dalla luce dei riflettori – se non per denunciare episodi come quelli della mala sanità – quella dei luoghi della salute, della sofferenza che il Covid ha avuto il merito di porre di nuovo in evidenza per la loro importanza. Come osserva lucidamente Marta Bonafoni, nella prefazione “il Covid-19 è stato come un pettine a cui improvvisamente sono arrivati tutti i nodi: abbiamo scoperto uno straordinario “bisogno di cura” presente nella nostra società; improvvisamente sono saltate tutte le nostre certezze, come quelle dell’eccellente sanità lombarda rivelatasi poi la più fragile di tutte. Sotto la pandemia abbiamo guardato a occhio nudo l’enorme mole di disuguaglianze che abita anche la nostra città” (p.12). In sostanza “il Covid-19 ci ha raccontato un altro pezzo della storia, ci ha insegnato cosa sia l’interdipendenza tra esseri umani, e tra questi e i luoghi che abitano. Esiste una relazione strettissima tra virus e ambiente, ed esiste un diverso modo di “prendersi cura” – fatto di relazioni, welfare di comunità, mescolanza funzionale – che dovremo essere in grado di far impattare nel mondo nuovo” (p.13).
L’autrice afferma con chiarezza che si intende interessare della “città conclusa, quella nascosta alla vista dei più, che vogliamo iniziare a esplorare insieme in un’ottica turistica, per comprendere il suo peso nelle dinamiche e nei cambiamenti più profondi avvenuti nelle comunità che popolano la città. È necessario farlo perché, al di là delle sue mura, ha raccolto e custodisce scampoli di storia e storie di vita che raccontano una parte di città strettamente legata alla sua evoluzione nel tempo, dall’antichità alla modernità, fino a oggi. Questa storia e queste storie sono una sorta di tessuto connettivo intimo della città” (p. 29).
Nel secondo capitolo (“Dal sanatorio all’ospedale: mutamenti dell’approccio alla cura”) Irene Ranaldi propone un interessante analisi del rapporto sanità-urbanistica, che parte dall’antica Grecia passando per il Medio evo, l’Umanesimo ed il Rinascimento fino ad arrivare all’Ottocento e al Novecento. “Nell’Alto Medioevo dove si diffusero, lungo le grandi vie di comunicazione, a fianco delle sedi episcopali, delle diaconie e dei monasteri, delle piccole strutture, antesignane dei successivi hospitali, denominate xenodochi o, meglio, nosocomi. Accanto a tali strutture si sviluppavano, spesso, vere e proprie scuole dove si imparavano le arti mediche come in quella molto prestigiosa di Salerno.
Roma, sebbene non più capitale dell’impero e spopolata, rappresentava per la cristianità un punto di riferimento e meta di pellegrinaggi. Ed è proprio nella capitale della cristianità che viene fondato il primo, e più antico, vero e proprio ospedale d’Europa. Si tratta dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, le cui origini si possono far risalire nell’VIII secolo, con la contemporanea fondazione della Schola Saxonum nell’area di Borgo a opera del sovrano sassone Ine del Wessex” (p. 42).
L’autrice proseguendo la sua lettura del rapporto sanità-urbanista sottolinea un passaggio chiave. “Solo a partire dell’età moderna, che convenzionalmente parte dalla seconda metà del XIV secolo, sorge, però, una vera sensibilità urbanistica alle tematiche della salute e della sanità, con la progettazione, all’interno dei perimetri urbani, di aree espressamente dedicate all’accoglienza e all’assistenza dei malati. Gradualmente – lo testimonia iconograficamente l’arte, dal Medioevo all’Umanesimo e al Rinascimento e i primi studi scientifici di anatomia e di fisiologia – il rapporto con il corpo, quindi anche con la salute e la malattia, cambia e trova un nuovo punto d’equilibrio con la mente/anima” (p.43).
Ranaldi ripercorre poi le tappe più salienti della legislazione italiana in tema sanitario. “A seguito dell’unità d’Italia, istituita con il regio decreto n. 4707 del 3 luglio 1887 e inquadrata presso il Ministero dell’interno nel 1888 nasce a Roma la Direzione generale della Sanità pubblica che rimarrà attiva fino al 1945. Questo testimonia come la politica sanitaria avesse ormai acquisito rilevanza centrale nei compiti attribuiti allo Stato. Dopo qualche anno, fu emanata la legge n. 6972 del 17 luglio 1890 nota come legge Crispi, che istituì le IPAB – Istituti di pubblica assistenza e beneficenza – che stabilì la differenza tra gli ospedali veri e propri e gli enti di assistenza di altro tipo – come orfanotrofi e ospizi – dotandole dei beni e delle risorse delle disciolte Opere pie che, fino ad allora avevano in capo le strutture ospedaliere religiose che vennero di fatto rese pubbliche” (p. 52).
Arriviamo alla Costituzione. “Con la nascita della Repubblica italiana – osserva l’autrice – la nuova Costituzione del 1948 riporta nell’art. 32 la tutela della salute inteso come diritto inalienabile universale, cioè di tutti i cittadini, e allo stesso tempo di interesse della collettività. Inoltre, vengono assicurate esplicitamente le cure gratuite agli indigenti” (p. 53).
La stagione degli anni ’60 è segnata “dalla legge 12 febbraio 1968 n. 132 che riforma il sistema degli ospedali, fino ad allora per lo più gestiti da enti di assistenza e beneficenza, trasformandoli in enti pubblici (enti ospedalieri) e disciplinandone l’organizzazione, la classificazione in categorie, le funzioni nell’ambito della programmazione nazionale e regionale e il finanziamento” (p. 57).
La fine anni ’70 segnala una tappa storica. L’autrice ricorda che “il SSN viene istituito con legge italiana n. 833 del 23 dicembre 1978, entrata in vigore nel 1980. Con l’abolizione del precedente sistema mutualistico, il concetto di salute da bene universale e gratuito (e quindi diritto per l’autonomia) è progressivamente mutato in quello di bene necessario per l’equità verso gli indigenti, piuttosto che come un diritto universale rivolto a tutti quelli presenti nella società” (p. 57).
Ranaldi fa inoltre riferimento al contesto europeo ed internazionale. “A livello comunitario il diritto alla salute è contemplato sia dall’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – come diritto alla prevenzione e alla cura – sia dall’art. 3, che disciplina una serie di principi in materia, tra i quali, ad esempio, quello del rispetto del consenso informato” (p. 54). “Per i padri costituenti, di formazione cattolica, – sottolinea l’autrice – il fine dell’azione sanitaria non era quello di ridurre la sanità ai suoi costi come ormai è diventato il solo parlare di salute ma anzitutto di occuparsi della salute – dal latino salus – che è la salvezza integrale dell’ammalato, intesa anche in termini di salvezza della sua anima” (p. 54).
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) già nel 1948 definiva la salute come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia e di infermità» e invitava i governi a adoperarsi responsabilmente, attraverso un programma di educazione alla salute, al fine di promuovere uno stile di vita sano e di garantire ai cittadini un alto livello di benessere.
Si introduce – osserva Ranaldi – un innovativo concetto di salute che non si riferisce solo alla sopravvivenza fisica o all’assenza di malattia, ma va a comprendere gli aspetti psicologici, le condizioni naturali, ambientali, climatiche e abitative, la vita lavorativa, economica, sociale e culturale. E quindi si potrebbe spingere fino a riconsiderare il ruolo delle città come promotrici di salute. A tal proposito l’OMS ha coniato il termine healthy city, che non descrive una città che ha raggiunto un particolare livello di salute pubblica, ma una città che è conscia dell’importanza della salute come bene collettivo e che, quindi, mette in atto delle politiche chiare per tutelarla e migliorarla (p.55).
La salute, in questa nuova accezione, non è più solo un “bene individuale”, ma un “bene comune” che chiama tutti i cittadini all’etica e all’osservanza delle regole di convivenza civile, a comportamenti virtuosi basati sul rispetto reciproco: un approccio esplicitato in questi tempi di pandemia da
Covid-19. (p. 55-56)
In sostanza via via si fa strada l’idea che la dimensione del benessere e della salute è nelle democrazie occidentali, un caposaldo di convivenza civile e sociale e questo costringe a fare i conti con lo “spazio progettato”.
L’autrice analizza poi “la situazione nel dopoguerra” e conclude il capitolo con un paragrafo dedicato alla “capitale e il suo rapporto con i luoghi di cura”.
Il terzo capitolo (“Passeggiate storico-sociali nei luoghi di cura romani”) propone un viaggio in 24 presidi localizzati in 9 zone di Roma: Centro storico (San Giovanni, Santo Spirito in Saxia, San Giacomo; Fatebenefratelli; Bambino Gesù, Ospedale militare del Celio); Trastevere (Nuovo Regina Margherita, San Gallicano, Museo e Biblioteca pediatrica “La scarpetta”); Nomentano (Policlinico Umberto I; George Eastman); Tiburtino (Policlinico Casilino; Sandro Pertini); Ardeatino (Istituto di ricerca e cura Santa Lucia; Sant’Eugenio); Gianicolense (Ospedale Israelitico; San Camillo; Carlo Forlanini; Lazzaro Spallanzani); Aurelio (Istituto dermopatico dell’Immacolata IDI; Ospedale Gemelli); Trionfale (Ospedale Oftalmico, Santa Maria della Pietà, Ospedale San Filippo Neri); Ostia (Ospedale G.B. Grassi).
Irene Ranaldi spiega molto bene il senso di questo itinerario che è insieme una proposta culturale e di recupero della memoria: “le mura degli ospedali e i loro spazi possono essere lette come pagine di storia sociale, storia della medicina, storia dell’arte, storia della architettura, storia urbana. Alcuni edifici ospedalieri sono testimonianza di lunghi processi trasformativi avvenuti nel corso dei secoli, di avvenimenti sedimentati nelle forme architettoniche, di culture istituzionali, sanitarie, materiali, artistiche. E raccontano anche la narrazione di un rapporto città-natura. Si propone quindi nelle prossime pagine una passeggiata a tappe seguendo un filo che parte dal più antico ospedale romano, nonché d’Europa, e prosegue poi random senza seguire un percorso precostituito La scelta è dettata dal porsi nei panni di un cittadino romano che in una giornata di sole nel fine settimana, decida di prendere i mezzi pubblici (a Roma esiste la linea di mezzi pubblici su gomma della municipalizzata Atac denominata Linea H dall’inglese Hospital per congiungere vari complessi ospedalieri) per scoprire storia e architettura di luoghi dove solitamente si reca solo per sanare un dolore o per fare indagini sul proprio stato di salute” (pp. 81-82).
Il volume termina proponendo il “Manifesto dell’Associazione culturale degli ospedali storici italiani (ACOSI)” ed una rassegna della “principale legislazione sanitaria italiana”.
Per concludere vorrei tornare alla prefazione di Marta Bonafoni che descrive molto bene l’importante contributo scientifico (di sociologia urbana) e culturale che Irene Ranaldi offre con il suo libro; un lavoro che ha il pregio di realizzare un rilevante recupero della storia di alcuni importati ospedali di Roma e di guardare al futuro della salute nella capitale.
“Serve insomma una città nuova, delle persone e per le persone. Che sappia valorizzare i suoi vuoti oltreché i suoi pieni, costruendo “spazi collettivi generatori di salute urbana” per dirla con Paolo Piacentini, in grado di rigenerare una città pubblica che sappia armonizzare i parchi, gli orti, le zone pedonali e le piste ciclabili con la promozione di servizi prossimi alle persone. Lo racconta già in questo libro Irene, riandando indietro con le lancette della storia fino agli anni in cui nascono i primi grandi ospedali di Roma. Sorgevano lontano dai centri abitati, certo per evitare l’eventuale diffusione delle malattie, ma anche perché lì, nel cuore della campagna ro-mana, vi erano due ingredienti necessari alla cura – la luce e l’aria – prime medicine per qualunque patologia. (…) Anche i malati di Covid non riescono a respirare quando il virus attacca i loro polmoni. Anche le nostre città hanno sempre meno aria e una necessità sempre più forte di rigenerarsi. Una soluzione a portata di mano è il rammendo possibile a Roma – Comune agricolo più grande d’Italia – tra città e campagna, la prima ricucitura necessaria, sempre secondo Piano, per riempire i vuoti urbani di bellezza, relazione, in-contro.
Insisto – prosegue Marta Bonafoni – su questo rapporto tra città, relazioni e comunità, perché mi sembra anche la traccia che accompagna il viaggio in cui ci porta il libro, nella storia e lungo le strade dove sorgono le strutture ospedaliere di Roma. Esiste un momento in cui la malattia da dannazione diventa evento sociale da affrontare collettivamente e la salute da bene individuale prende la forma di bene comune. C’è mi sembra un possibile parallelismo tra le terre del Pio istituto di Santo Spirito che fornivano il cibo per le mense degli ospedali di Roma e i prodotti della campagna romana da inserire nelle mense delle scuole e degli uffici della capitale come azione-chiave nella promozione di un nuovo modello di sviluppo. C’è più di un suggerimento in quegli hospitali costruiti per accogliere gli stranieri, pellegrini in viaggio in cerca di ricovero, per far risorgere finalmente una città all’altezza della sua tradizione millenaria. Ospitale, appunto. Non più edifici relegati nella città nascosta e destinati a veder cancellata la loro antica vocazione, ma pezzi di città pubblica in grado di reinventarne centralità e funzioni. Cos’è se non una straordinaria pagina di nuovo welfare l’occupazione abitativa all’interno dell’Ipab San Michele a Tor Marancia? Di cosa parlano le battaglie dei comitati in difesa del Forlanini e del Santa Maria della Pietà, se non di una tenace volontà di ridare memoria e senso a luoghi che hanno fatto la storia e il sentimento di interi quadranti di Roma? Da luoghi di malattia e morte a crocevia di vita e opportunità.