Dopo essere stato pubblicato in forma privata, digitale e gratuita dallo stesso Alessandro
Baricco, il suo ultimo saggio dal titolo Quel che stavamo cercando esce in formato cartaceo per Feltrinelli, come a voler fissare sulla carta, per i posteri, il suo personale flusso di pensieri sulla Pandemia in corso.
Nei 33 frammenti di cui il libro è composto, tutti molto brevi, e che sullo smartphone è possibile addirittura ascoltare dalla stessa suadente voce di Baricco, lo scrittore, da intellettuale qual è, ci racconta la vita, o meglio la non vita, che stiamo vivendo, e ci mostra la Pandemia, sempre scritta in maiuscolo, come non avremmo mai immaginato di concepirla, ossia come una creatura mitica.

Dire che la Pandemia è una produzione mitica, scrive Baricco, una costruzione collettiva in cui diversi saperi e svariate ignoranze hanno spinto nella stessa direzione, non vuol dire che non sia reale e tantomeno che sia una favola, significa sapere con certezza che una quantità enorme di decisioni molto reali l’ha prima resa possibile, poi quasi invocata, poi generata definitivamente, assemblandola con un numero infinito di piccoli e grandi comportamenti pratici.
Tralasciando possibili scenari in cui magari la comunità internazionale ed europea avrebbe dovuto proteggerci da dissennati e anti igienici comportamenti alimentari di paesi culturalmente molto diversi da noi, Alessandro Baricco concretizza la pandemia nell’urlo di Munch, diremmo noi per visualizzarla, in cui a urlare e invocarla, come per volerci fermare, siamo stati noi stessi, l’intero occidente. Ma che follia di vita facevamo prima?
Se nel saggio precedente, THE GAME, analizza la rotazione continua di esperienza fisica ed esperienza digitale in un unico sistema di realtà, qui affronta il tema del superamento della realtà stessa, dell’azzeramento delle relazioni e quindi della rimozione dei corpi, del contatto, dell’incontro, con tutto ciò che questo comporta. Tutto, infatti, in quella figura che urla, indica che ci tocchiamo troppo, che stiamo fisicamente troppo allo scoperto, che mescoliamo in maniera orrenda miasmi, liquidi, particelle, che siamo sporchi.

Abbiamo urlato al mondo di fermarci, un urlo di fatica e ribellione come un bambino che piega le ginocchia e si lascia cadere perché non ce la fa più. Un immane bisogno collettivo di pulizia, forse di espiazione . Una spaventosa ondata di puritanesimo. E spaventosa ci appare infatti la riflessione di Baricco sulla Pandemia come creatura mitica e urlante, come evento storico prodotto dal pensiero umano collettivo, e quindi premonitore, profetico. E sempre per inorridirci ancora di più ci ricorda come Jung in un’ intervista aveva previsto l’ascesa di Hitler semplicemente ascoltando i sogni dei suoi pazienti negli anni immediatamente precedenti l’avvento del nazismo, spiegando cosi come la storia non è che la traduzione in evento di certe pulsioni dell’inconscio collettivo.
Dobbiamo dare atto a Baricco però di essere l’unico, o tra i pochissimi intellettuali, a considerare la Pandemia non solo come semplice evento sanitario, ma come un fenomeno molto più complesso che implica l’analisi della realtà presente, passata e futura. Baricco si chiede dove sia finita l’intelligenza degli umani; montava ormai da tempo, scrive, la necessità di sottoporre l’intelligenza novecentesca a un definitivo stress test. Sta vacillando una delle figure mitiche più forti prodotte dalla modernità, quella della scienza; a tramontare non è tanto il mito della scienza come sapere infallibile, quanto quello della scienza come sapere utile.
Siamo rimasti senza sapere perché ci siamo affidati a un sapere unico, quello scientifico che si è arrotolato su se stesso, irrigidito da processi obsoleti e da schematismi inadatti al Game, o lo liberiamo al più presto da se stesso, dice la Pandemia, o diventerà fede pura, mistica. Baricco da scrittore poetico e musicale, contesta a ragione, il ridurre tutto ai numeri, perché questo comporta la perdita del senso della vita. L’ottusa razionalità meccanica, come lui stesso la chiama, fa sempre perdere di vista il quadro complessivo di qualsiasi faccenda. L’ossessiva applicazione razionale alla soluzione di un problema porta inevitabilmente al crollo del valore della vita umana e a una colossale mortificazione del diritto all’esperienza e alla felicità. È un errore che conosciamo. Un deficit di intelligenza.

Baricco si pone il problema del potere esercitato con astuzia piuttosto che con intelligenza, un intelligenza che ormai è obsoleta, inadatta a gestire la realtà, o almeno questa realtà. Un’intelligenza che ama lavorare con soluzioni stabili e di scarsissima flessibilità. Se organizza porzioni di realtà, sceglie sistemi che le assicurino una certa permanenza, e non le importa che abbiano una capacità di adattamento. Ipotizza sempre che il problema sia fisso, fermo, stabile: risolverlo significa inchiodarlo lì. Il virus non è democratico, scrive Baricco, rafforza i potenti, disfa i poveri, non fa crollare le borse ma devasta l’economia informale. Decine di milioni di persone stanno regredendo alla condizione di assistiti, il potere politico è tornato al centro del campo in una restaurazione fulminea che l’ha recuperato da un’agonia irreversibile. Tutta un’elitè intellettuale è tornata a farsi ascoltare invece di essere archiviata.
La rabbia sociale si è trovata disinnescata, confinata, silenziata. E come dare torto a Baricco dal momento che milioni di giovani accettano passivamente di non vivere, di non lavorare, di non amare più, di non toccarsi più, abbracciarsi, baciarsi, andare al cinema, a teatro, a fare sport, rinunciano a vivere la vita insomma! Come dare torto a Baricco se milioni di adulti accettano passivamente di farsi mandare in rovina, di far si che venga distrutto tutto ciò che hanno costruito, accettano persino che non gli si lasci stringere la mano dei genitori morenti. Si perché la Pandemia, scrive sempre Baricco, ha ucciso una generazione colpevole spesso di non lasciare spazio ai giovani, di bloccare la mobilità sociale.

Chi parlerà di tutta questa morte, si chiede Baricco? Dov’è finita l’intelligenza? Un’intelligenza non novecentesca saprebbe che educare significa proprio preparare all’instabilità. Che il sapere è riservato a intelligenze sufficientemente leggere e veloci da riallineare le regole note all’ignoto del reale che cambia. Che la conoscenza è un gesto sempre instabile, e morbido, che coincide con l’arte dell’adattamento, e alla fine è riassumibile nella capacità animale e intuitiva di vedere figure provvisorie dove disponiamo solo di frammenti.
Ci sarebbe ancora tanto da scrivere sui 33 frammenti del saggio Di Baricco, un saggio a tratti molto ostico, che ci mostra lo scontro senza incontro fra mondo vecchio e mondo nuovo, un mondo che potrebbe essere edificato solo sulle rovine dell’altro se solo avessimo il coraggio di riconoscerne l’inutilità ormai; se solo non ci facessimo prendere alla gola dalla nostalgia, se solo avessimo il coraggio di rovesciare certe elitè che avendo sbagliato tutto continuano a farci crede che quella sbagliata sia ancora l’unica mossa giusta da fare. Se solo ci ricordassimo che vivere è un’aspirazione che passa dalla capacità di morire.