Teresa Ciabatti torna in libreria per Mondadori con Sembrava bellezza, e subito il suo nome e il suo libro vengono annunciati non solo fra i probabili candidati al Premio Strega 2021, ma addirittura Sembrava bellezza viene già annunciato come vincente. Finalista nel 2017, arrivò seconda con La più amata, la Ciabatti ci propone quest’anno una storia che già nella prima pagina lei sostiene essere vera tranne che per l’età e il nome della figlia. Con la sua scrittura asciutta come da nuovo Baricco, la Ciabatti ha studiato alla scuola Holden, a tratti affilata e sempre dissacrante al punto da tracciare di sé un’immagine al limite di quel grottesco che suscita un certo disagio nel lettore, ci racconta di una scrittrice di mezza età dal successo ormai quasi sfumato, che non riesce a uscire dalla spirale dell’adolescenza. Descrive così il trauma del trasferimento dalla provincia alla città, ai Parioli, il ricco quartiere romano dove lei nuota come un pesce fuor d’acqua, in una condizione d’inferiorità più psicologica che reale. Ci racconta della scuola, della sua fisicità di adolescente grassoccia, bruttina, con i seni asimmetrici, invisibile e indesiderata. Della sua famiglia difficile, con un passato fatto di violenze, alcune vere, altre presunte, altre immaginarie. Della sua migliore amica, Federica, l’unica che ritrova a distanza di trent’anni, e della di lei sorella Livia, bellissima, desiderata, che rimane vittima di un incidente che forse poteva essere evitato, e che la cristallizza nella bellezza e nella gioventù sia fisica che mentale. “Questo romanzo ho iniziato a scriverlo prima di saperlo– dichiara la scrittrice- mi interessava partire da quegli studi scientifici che mi hanno portata ad intraprendere dei viaggi nella malattia”; e infatti una delle due citazioni sul frontespizio del libro viene proprio dal famoso romanzo di Oliver Sacks L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, citazione che ci rendiamo conto riassume e racchiude in se tutto quello che è il suo modo di scrivere, di raccontare, e di lasciare il lettore nella confusione e nello sgomento.
La paziente parla molto velocemente, d’impulso, senza discriminazione, cosicché l’importante, e il banale, il vero e il falso, il serio e lo scherzoso sgorgano in un flusso rapido, non selettivo, quasi confabulatorio. Può contraddirsi completamente nel giro di pochi secondi. Dirà di amare la musica, di non amarla, di avere un femore spezzato, di non averlo.
Ed è così che ci appare la Ciabatti nel suo romanzo. La protagonista, infatti, nonostante affermi che crescere ed evolversi è una questione di esperienza e non di intelligenza, e nonostante “sembri” ormai una donna adulta e realizzata, che ha avuto il suo momento di successo, di rivalsa, rimane mentalmente ferma in quella condizione adolescenziale di invidia, di inferiorità fisica, umana, sociale che continua ad impedirle, al pari di una vera e propria malattia, di stabilire legami forti, importanti, duraturi. Ha un ex marito che ha sempre tradito, a dispetto di tutti quei ragazzi che lei desiderava e per i quali era invisibile, a dispetto del più bello della scuola che ancora oggi continua a desiderare nonostante sia ormai invecchiato, imbruttito. Ha una figlia che lei avrebbe voluto più amata di lei, ma che non riesce ad amare nella maniera giusta. L’unica a tornare davvero nella sua vita è Federica con la quale condivideva i drammi di quell’età sui quali, una volta adulti, nella normalità della realtà, ci si ritrova a sorridere. L’amica, invece, ha l’effetto di farla regredire ancora di più, se mai fosse possibile, portandola addirittura a svelarci un segreto, una colpa inconfessata e forse inconfessabile.
“Rimaniamo immutati nella fortuna e nella sfortuna”, scrive la Ciabatti, “non sono le condizioni a cambiarci, rimaniamo malevoli”, se lo siamo aggiungiamo noi, perché è vero che la cultura quasi mai prende il sopravvento sulla natura, ma nel libro questo vuole sottolineare l’idea che in fondo l’essere umano sia fatto solo di miserie, di rancori, invidie, di tutti quei sentimenti negativi che ci fanno vivere l’amore in solitudine. Perché è così che la protagonista sembra viverlo, nell’incapacità di esprimerlo e di condividerlo persino con la figlia. La figura di Livia, sorella di Federica, così amata, cosi desiderata, perfetta al punto di volerne la morte, di non fermarne il tentato suicidio, di non essere minimamente sfiorati dall’idea che anche chi è bello possa soffrire, ci porta ad un’altra ossessione di questa voce narrante di cui mai viene fatto il nome. Da ragazza prima, e donna dopo, la protagonista sente il corpo come nemico, poiché fa coincidere la sede del piacere, che ammette essere diversa per ognuno, nella bellezza dei corpi, nell’armonia, esplicitando così un altro disequilibro non diagnosticabile che aggiungendosi agli altri la fa vivere al pari di una persona malata. Senza possibilità di crescita e in fondo nemmeno di riscatto vanificando così quel sentimento di rivalsa che ha sempre guidato la sua vita.
“La mancanza di empatia, l’assenza di pietà verso il prossimo, specie se fragile, è uno dei lati del mio carattere, se devo descrivermi, intelligente, anaffettiva”, scrive, contraddicendosi dopo affermando che il dolore personale stabilisce il grado di verità dello scrittore perché le storie nascono dal vissuto. È vero, e il vissuto e il dolore nascono spesso dall’amore mancato, un amore che noi abbiamo provato e che per disattenzione, disamore, gli altri hanno ignorato. Qui il dolore nasce dall’aver confuso il desiderio con l’identità , quell’identità che noi stessi non sappiamo attribuire alla scrittrice/protagonista, non riusciamo a condannarla ma nemmeno ad assolverla. Le donne della Ciabatti sono sempre negative, bugiarde, abiette, volgari, malevole appunto. Il linguaggio con cui affronta ricordi sessuali, sensazioni e desideri e tra i peggiori mai letti scritti da una donna. Il suo paragonare poi la sua opera a quella di Jeffrey Eugenides, solo perché ne ha copiato il personaggio di Lux Lisbon de Le vergini suicide, ci sembra a dir poco megalomane.
“Sono sempre affascinata dalle cose che finiscono”, dichiara ad ogni intervista, ma nelle cose che finiscono fa rientrare solo l’ossessione per la caduta, per la fine del successo, che poi è quello che crede di raccontare nel suo libro. Ma Sembrava bellezza è un romanzo che solo marginalmente affronta questo tema; è un libro che vuole farci credere, piuttosto, che non possa essere bello qualcosa che finisce, qualcosa come la bellezza, perché la vecchiaia livella tutti, belli e brutti, e anche questo, dobbiamo deludere la Ciabatti, non è vero.
Non è un libro sui rapporti familiari o sul rapporto madre e figlia, non è un libro che affronta un tema generazionale, si limita solamente a dire che noi ultraquarantenni siamo tutti ex giovani psicanalizzati. Non è tantomeno un romanzo che descrive problematiche con occhio scientifico come all’inizio abbiamo detto la scrittrice ha annunciato il suo lavoro, anzi afferma di come sia falso, in barba alla psicoanalisi, che rimuoviamo i ricordi dolorosi. Ci racconta di come la memoria non li lasci andare permettendogli di tormentarci e di farci vivere nel dolore, rinnovandolo sempre, ammalandoci al punto che vivremmo meglio senza memoria. Il tutto naturalmente contraddicendosi molte pagine dopo ricordando come la nonna violentata dal padre, alla fine della sua vita si ricordasse di avere amato solo lui e lo invocasse di continuo. Racconta di come le fratture causate dall’incapacità di verbalizzare, sedimentino dentro di noi, causando strascichi di incomprensione che fanno della famiglia il luogo meno sano e meno sicuro in cui crescere. Come lei stessa scrive il suo impulso di distruggere, la tentazione di far esplodere non è mai sopita. Ed anche se sappiamo che sempre lo scrittore romanza, fonde realtà e immaginazione, desiderio e verità, mischia e spariglia, la Ciabatti fa solo questo : distrugge, fa esplodere letteralmente e letterariamente l’idea che abbiamo di lei e della sua opera, perché in un libro il cui titolo è Sembrava bellezza, di bellezza non siamo riusciti a trovarne.