Irene Chias è una scrittrice siciliana che adesso vive a Malta. Ha lavorato come giornalista per diversi anni in Francia e a Milano. I suoi racconti sono apparsi su “Nuovi Argomenti”, su “Granta Italia”, su “Il primo amore” e anche sulle pagine di “Repubblica”. Ha pubblicato diversi romanzi: Sono ateo e ti amo (Elliot, 2010); Esercizi di sevizia e seduzione (Mondadori, 2013), vincendo il Premio Mondello Opera Italiana e del Premio Mondello Giovani, e Non cercare l’uomo capra (Laurana, 2016).

Il nuovo libro di Irene Chias si chiama Fiore d’agave, fiore di scimmia (Laurana Editore) ed è un romanzo ambientato in Sicilia, la sua terra. Una storia travolgente che si struttura su due livelli narrativi che si intrecciano e si rincorrono, continuamente, creando un continuo gioco prospettico tra il passato di una Sicilia antica e il presente dove permane un certo atteggiamento di regressione. La protagonista del libro è Adelaide Dattilo, una scrittrice di quarant’anni che ritorna nella propria terra d’origine per raccogliere le sfumature dimenticate, gli odori e la giusta ispirazione per scrivere un nuovo romanzo. Si tratta di un “Romanzo femminile siciliano”, come scritto all’inizio del libro, proprio perché si tratta di un racconto che mette al centro di tutto le donne e la volontà di riscattarsi da una delusione, da un tradimento. La casa rappresenta il rifugio sicuro dentro il quale poter curare le ferite di un amore ormai sfiorito, in una terra lontana e tra i parenti. La perdita, l’abbandono, la sicurezza di ritrovarsi ma anche il coraggio di affrontare le difficoltà con coraggio e determinazione. Spesso il legame con il passato può risultare distante, antico, e rimane alle spalle di chi è andato via dalla propria terra d’origine. L’esigenza di voltare pagina in virtù del progresso tecnologico, molto spesso non collimano con le antiche fondamenta del passato, talvolta rurali talvolta no. Ma quelle fondamenta e quei muri portanti, rimangono li, anche quando fuori il mondo si riempie di luci e ombre o tappeti rossi. Rimangono lì i ricordi e il tempo che si cristallizza come un quadro dentro la propria cornice che osserva mestamente gli eroi feriti e pieni di cicatrici, mentre varcano le mura di una casa solida che non li lascerà mai soli al proprio dolore.
Abbiamo intervistato l’autrice Irene Chias che ci ha parlato del suo libro.
Come nasce il romanzo Fiore d’agave, fiore di scimmia?
“Attorno al tema principale – che è il motore della narrazione e riguarda le idiosincrasie e le fissazioni del mondo dell’editoria specialmente, ma non soltanto, rispetto alle scrittrici – si sviluppano diversi temi a me cari. Credo che la vera protagonista del romanzo sia la rimozione della catastrofe (climatica, ambientale, umanitaria) che ci rifiutiamo di vedere e cui fa eco, nel suo piccolo, l’abbandono di piccoli centri del Sud Italia. Il romanzo nasce proprio da questa sensazione di svuotamento di possibilità e generazioni che pervade chiunque si rechi in cittadine una volta floride e piene di vita”.

Quando hai deciso di scriverlo e da cosa hai tratto ispirazione?
“Difficile rinvenire il momento esatto, credo che comunque sia nato da un’urgenza riguardo all’impatto ambientale irreversibile di attività umane che ci appaiono irrinunciabili e che determinano quegli stravolgimenti – dalle pandemie al clima, passando per migrazioni di profughi e contaminazione delle falde acquifere e dell’aria – che porteranno, che già hanno portato, al sacrificio di tante popolazioni e all’estinzione di troppe specie animali. Non a caso cito in esergo una frase tratta da La grande cecità di Amitav Ghosh, che parla anche dell’ottusità delle narrazioni imperanti, assolutamente cieche al perturbante, all’irregolare, all’imprevisto. E in ultima analisi alla possibilità del disastro”.
Il tuo è un romanzo che parla di donne, ma parla anche di ritorno come quello di Adelaide che per provare a scrivere torna in Sicilia. Tu sei siciliana ma vivi a Malta. Quanto c’è di autobiografico in questo romanzo?
“Il mio romanzo parla di alcune donne specifiche, in particolare della scrittrice Adelaide Dattilo e di una misteriosa donna che conosce a Sant’Angelo Muxaro, paesino in cui la scrittrice si reca per cercare ispirazione per il suo romanzo. L’enigmatica vicina si fa chiamare Genova, in memoria degli abusi perpetrati dalle forze dell’ordine in occasione del G8 del 2001. Nel parlare di Adelaide – ma anche del suo personaggio Adelasia – è indispensabile parlare anche di Sicilia. Quando ho scritto il romanzo vivevo ancora a Milano e sentivo che il mio tempo lì si era concluso. Avvertivo la mancanza del profumo e colori del Mediterraneo, che ho ritrovato qui a Malta. Di autobiografico c’è certamente il richiamo a questo entroterra siciliano che mi ha molto segnata da bambina e che in qualche decennio è profondamente cambiato, peggiorato”.

Che legame hai con la tua terra?
“Molto profondo. Sono andata via quando avevo diciotto anni, da allora ho vissuto in tante città e ho viaggiato molto. Ma in qualunque luogo mi trovi, forse il confronto implicito e inevitabile è con i luoghi della mia infanzia, con le immagini delle cittadine siciliane in cui ho vissuto. Per il resto, da un punto di vista prettamente umano, c’è anche quel rapporto di attrazione e repulsione di cui ho parlato nel mio primo romanzo Sono ateo e ti amo”.
Il momento storico che stiamo attraversando è molto difficile. Siamo tutti distanti, tutti lontani e impossibilitati alle interazioni a causa del coronavirus. Come stai vivendo questo periodo? Come hai vissuto il lockdown?
“Ammetto di essere stata fra coloro che in un primo momento si sono illuse che, davanti all’evidenza di tanto pericolo, l’umanità avrebbe fatto un passo indietro. Si sa che il turismo di massa, gli allevamenti intensivi, la deforestazione scriteriata sono alla base della diffusione di epidemie. Una pandemia come questa era attesa da anni. Adesso si parla anche di un superbatterio creato negli allevamenti industriali votati alla produzione della carne. Viviamo in una situazione paradossale, in cui nessuno decide di affrontare i problemi con lungimiranza, nessuno pensa a diversificare un’economia attualmente basata esclusivamente sul profitto e che ci ha portato a tutto questo. Eppure, da questa parte dell’oceano le industrie zootecniche continuano ad avere i sussidi dell’Unione europea, e dalla vostra la realtà è anche peggio. Qui a Malta, dove non c’è stato un vero e proprio lockdown, la priorità dei politici è parsa sempre quella di spingere turismo e consumi. Lo scorso maggio, alla domanda se non temesse una seconda ondata di contagi, il primo ministro aveva risposto ‘le onde stanno nel mare’. A luglio si contavano 3 casi attivi oggi sono ben oltre i 2000”.

In ognuno di noi c’è la volontà di tornare nella propria casa, nella propria terra. Tu lo hai sentito questo bisogno?
“Più volte nella mia vita, a fasi alterne. La mia soluzione attuale è forse un compromesso fra il richiamo di casa e il bisogno di realtà diverse. Malta paesaggisticamente e architettonicamente (fino alle chiese barocche) è molto simile alla Sicilia. Ma si parla una lingua semitica e il passaggio dei britannici ha lasciato una certa impronta anglosassone”.
Quale messaggio vuoi lanciare ai nostri lettori?
“Se volessi lanciare un messaggio, cosa che non sono sicura di voler fare, non potrebbe che essere contraddittorio: un richiamo al consumo responsabile, sebbene io creda fermamente che il cambiamento debba partire a livello politico e con urgenza. Consumare meno, comprare meno, mangiare eticamente, vestire eticamente, eliminare la plastica. Visto il punto cui siamo arrivati non farà la differenza, ma resta comunque la cosa giusta da fare”.