
“Ho imparato che esistono dieci, cento, mille Cine diverse. Esplorale è come fare un viaggio su una macchina del tempo”. Di lezioni dal Celeste Impero Giada Messetti ne ha apprese tante: quanto sa della Cina, la giornalista-sinologa l’ha narrato nel suo Nella testa del Dragone (Mondadori, 2020), un viaggio in pagine che racconta il paese di oggi passando al setaccio gli elementi più importanti della seconda economia mondiale. Arrivata a Pechino la prima volta nel settembre 2002, a ventuno anni (alloggiò in un dormitorio a tre dollari e mezzo a notte) Messetti conosce bene la Cina, ma la sua produzione è incentrata sulla figura Xi Jinping e il suo Sogno cinese, cioè la proiezione di un nuovo ruolo della Cina nel mondo. Riscattare l’ex impero di mezzo dalle umiliazioni coloniali e dalla povertà per essere l’unica grande potenza mondiale che scandirà il XXI secolo è la priorità della corrente amministrazione cinese.
La prima cosa che non può non colpire quando di parla della Cina dell’ultimo decennio è il fatto che Pechino non sia stata o quasi toccata dalla crisi economica che ha flagellato Stati Uniti ed Europa. “Il Dragone è uno dei paesi che riescono meglio a far fronte alle crisi e a trarne dei vantaggi strategici: accelera il passaggio dal suo modello economico trainato dalle esportazioni a un modello basato sui consumi interni e, soprattutto, prende consapevolezza del suo ruolo nel panorama mondiale”, scrive Messetti. A dare forma al Sogno cinese in tal senso è stato il nuovo “caro leader”: è quasi impossibile capire la Cina di oggi senza guardare al numero uno del Partito Comunista Cinese (PCC, dal novembre 2012) e Presidente della Repubblica popolare (dal marzo 2013). In Cina, Stato e partito si mischiano; i due concetti riportano innanzitutto al culto della persona: Messetti ricorda di quando qualche anno fa Xi si recò a pranzo in un ristorante pechinese, che da allora serve il menù che il leader prese durante la visita. Il controllo è la massima cifra dell’ideologia di Xi: è al contempo lo strumento e il fine politico dell’uomo alla testa del Dragone. Dai cartoni animati dedicati a Karl Marx all’app applausometro, il sistema propagandistico implementato dalla presidenza Xi – complice la capillarità di smartphone – assicura un controllo totale sulle masse e la coltivazione del consenso popolare.

In Cina pochi nominano Xi dada, zio Xi: sebbene si creda sia “inopportuno”, è la paura di essere fraintesi o spiati a fa frenare la lingua dei più. Principino rosso, nome affibbiato ai pargoli dell’élite comunista maoista, la sua famiglia cadde in disgrazia durante la follia della Rivoluzione culturale. Xi imparò dunque l’umiliazione nelle campagne cinesi; poi negli anni Settanta entrò nel PCC e fece una brillante carriera. Tra giochi e trame di palazzo, seppe giostrarsi con equilibrio e camaleontismo nelle battaglie per il potere politico tra Jiang Zemin prima e Hu Jintao dopo. Isolate le figure scomode una volta arrivato al vertice del partito – dunque dello Stato – Xi ha iniziato un’opera di intensa promozione del suo pensiero politico, incastonato anche nell’app distribuita dal goebbelsian-orwelliano Ministero della Propaganda. L’app cattura l’intera vita del buon cinese: è al contempo un test e uno strumento di controllo della popolazione. L’obiettivo è accumulare punti – crediti sociali – ottenuti tramite la buona conoscenza della “dottrina Xi”. L’accumulo dei punti serve per segnalarsi come fedeli discepoli del regime; al contrario, è anche un sistema per identificare chi dissente dalla linea del PCC. Prova del fatto che “i tempi in cui l’Occidente pensava che Internet sarebbe diventato il cavallo di Troia per esportare il sistema democratico in Cina sono ormai lontanissimi”, scrive Messetti.
D’altronde, non c’è spazio per una visione che non sia quella verso la rinascita cinese dopo le umiliazioni delle potenze straniere occidentali; elemento, questo, che Xi ha sempre sottolineato. Il nazionalismo mischiato all’arte della guerra di Sun Tzu, nonché al mix tra capitalismo e comunismo, è la politica socioeconomica di Xi; la sua visione di come dovrebbe essere impostato il futuro della nazione. Scrive Messetti: “L’American Dream è un sogno individuale dove il singolo, impegnandosi e lavorando sodo, riesce a ottenere la propria realizzazione e il proprio successo. Il Sogno cinese è un sogno collettivo, in cui il singolo si impegna e lavora per raggiungere anche il successo di tutti gli altri, ovvero del paese”. Il programma di rinascita cinese trova snodo nei “due cento”: l’obiettivo di rendere la Cina pienamente sviluppata entro il 2021 (in occasione dei cento anni del PCC), in proiezione del 2049 (quando sarà un secolo dal takeover comunista in Cina).

I leader cinesi si sono sempre posti grandi ambizioni. Messetti spiega che l’obiettivo di Mao Zedong era dare un assetto politico al paese (le catastrofi umane l’hanno incoronato come il più grande criminale della Storia); quello di Deng Xiaoping era di liberare dalla povertà milioni di individui (abbandonando il Maoismo, abbracciando il capitalismo, ma mantenendo gli assetti confuciani-comunisti); quello di Xi Jinping è di natura geopolitica e contempla dunque sia politica (Mao), che economia (Deng). Per espandere silenziosamente l’egemonia e il controllo cinese – mascherando il tutto con la parola positiva “sogno” – è però necessario prima far pulizia in casa: oltre un milione di burocrati sono entrati nell’operazione anticorruzione di Xi, atta principalmente a spazzare via oppositori e potenziali avversari. E costruire un impero. Fondamentale nell’idea-forza di Sogno cinese targato Xi è il grande progetto della BRI, Belt Road Initiative, la Nuova via della seta (già OBOR, One Belt, One Road), un intricato allaccio internazionale geopolitico tra infrastrutture e servizi, tra Asia, Europa e Africa. Un complesso network di servizi e trasporti, comunicazioni e collegamenti.
Il progetto, annunciato all’università di Nazarbayev di Astana (oggi Nursultan) nel 2013 – si ricordi la scarsissima attenzione dei media occidentali in merito – s’inserisce nel fierissimo nazionalismo di Xi, che vuole passare alla Storia come colui che ha ridato l’orgoglio nazionale ai cinesi. Gli investimenti per “comprarsi” i paesi possono anche essere a fondo perduto: le perdite economiche si possono anche sopportare per espandere il proprio dominio geopolitico (si veda il caso dell’Africa centrorientale). In particolare, Messetti riporta che Pechino stima perdite dell’ottanta per cento sulla tratta pachistana, del trenta nell’Asia Centrale e del cinquanta su quella birmana. Ma i paesi toccati dalla BRI e beneficiari dei prestiti cinesi sono legati a doppio filo con il Dragone. “Aprire nuovi corridori commerciali, creando infrastrutture, permette alla Cina di esercitare un controllo, anche di natura difensiva, sui nuovi “nodi” commerciali e in Asia, dove Pechino non ha molti amici, nonostante si consideri padrona di casa”.

Xi sa come muoversi e come guidare il paese; sa che immagine dare di sé e della nazione cinese al mondo. A differenza della maggior parte dei leader occidentali, egli ha una visione e vuole mettere la Cina al centro del mondo. A parole, Xi intende portare pace e prosperità, ma le crepe geopolitiche che la Cina e il PCC devono affrontare sono diverse: da Taiwan al Giappone, da Hong Kong all’India. Anche i massicci investimenti in Africa hanno destato il sospetto di diversi osservatori, nonché – specialmente a Bruxelles – si teme un coinvolgimento cinese di alcuni paesi europei nella BRI, nonché il ricollocarsi su posizioni filocinesi di alcuni esecutivi. «Portogallo, Grecia e Ungheria sono stati importanti tasselli per il riconoscimento diplomatico del progetto geopolitico di Pechino, ma la vera svolta è arrivata il 23 marzo 2019, quando a firmare un memorandum of understanding con il Celeste impero è stata l’Italia», l’unico paese che ha siglato l’accordo per pugno del Vicepremier e Ministro dello Sviluppo economico, anziché per quello del Ministro degli Esteri.
È interessante notare come nel giro di trentacinque-quarant’anni gli equilibri tra Cina e Russia si siano ribaltati: sebbene nella Guerra Fredda i rapporti fossero scarsi trai due paesi – con Mosca come attore dominante – oggi è Pechino a dare le carte, sebbene Xi abbia definito Vladimir Putin come il suo migliore amico; oggi “i due paesi attraversano uno degli periodi migliori della loro storia”. Il commercio mondiale potrà beneficiare di questa intesa? Nel 2017 a Davos Xi spiegò: “Dobbiamo dire no al protezionismo”, perché «portare avanti il protezionismo è come chiudersi dentro una stanza buia. Vento e pioggia possono pure restare fuori, ma resteranno fuori anche la luce e l’aria. Nessuno uscirebbe vincitore da una guerra commerciale”. Di nuovo, a parole Xi è amico di tutti: e si sente di dare lezioni di libero mercato all’Occidente (debole), il tutto nell’ottica del Sogno cinese.