
A livello politico, in molti «stentano a immaginare un futuro che sia stabilmente democratico e liberale. La fine della Guerra Fredda aveva suscitato grandi aspettative alla diffusione a livello planetario della democrazia capitalista.» Inizia così La rivolta antiliberale (Mondadori, 2020) dei politologi Ivan Krastev e Stephen Holmes, che in un lungo percorso a cavallo tra Europa centrorientale, Russia, Stati Uniti e Cina offrono uno spaccato della crisi del liberalismo e del trionfo dei movimenti muscolar-populisti. Le cause che dal 1989 hanno messo in crisi l’identità pluralistica, internazionale, tollerante dei sistemi liberaldemocratici vanno trovate in diversi eventi: dall’11 settembre alla guerra in Iraq, dalla crisi del 2008 all’annessione della Crimea, dalla crisi umanitaria in Siria e Yemen a quella migratoria 2015, dalla Brexit alla vittoria di Donald Trump. Non stupisce il pessimismo circa il futuro delle generazioni più giovani: il vento non solo illiberale, ma antiliberale – dunque lo sdoganamento delle istanze populiste autoritarie – sono i sintomi di una fiducia perduta nei confronti della democrazia da parte di molti cittadini.
Prova ne è la diffusa retorica xenofoba, corroborata dal militarismo di leader infastiditi dai meccanismi del gioco democratico. In quest’ottica, siamo lontani dalla profezia di Francis Fukuyama: sconfitto il Comunismo, nel 1989 la democrazia liberale occidentale segnalava «il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità», tanto che il liberalismo «avrebbe infine trionfato in tutto il mondo.» Tuttavia, sottolineano Krastev e Holmes, è l’attuale reazione antiliberale ad essere «la risposta inevitabile a un mondo caratterizzato dalla mancanza di alternative politiche ed ideologiche.» Gli autori sostengono che «l’idea stessa che “non c’è alternativa” ha offerto […] un motivo per l’ondata di xenofobia populista». Il trionfo del liberalismo avrebbe strangolato lo stesso. L’attitudine egemonica che il liberalismo ha via via assunto dal 1989 per mancanza di valide alternative è sorta a spese dell’ideologia liberale stessa.

La conformità liberale che andava di moda una volta che il sistema aperto-occidentale aveva prevalso su quello chiuso-sovietico contagiò gli stati che dalle tenebre delle dittature comuniste si affacciavano al mondo libero. Dunque, i paesi dell’Europa centrorientale avviarono una «modernizzazione tramite l’imitazione e integrazione tramite assimilazione.» Copiando l’Occidente – il “liberalismo dell’imitazione” – senza averne interamente la forza, gli ex stati comunisti hanno sacrificato la propria identità nazionale e autonomia politica negata per mezzo secolo in nome del modello liberale. L’imitazione del liberalismo occidentale da una parte ha indebolito i sistemi post-sovietici; dall’altra ha rafforzato la necessità di esprimere la propria indipendenza e dignità nazionale. In parte, le origini del populismo «risiedono nelle umiliazioni che hanno accompagnato i duri sacrifici sopportati per diventare […] la copia inferiore di un modello superiore».
Krastev e Holmes citano Gabriel Tarde, il sociologo che in tardo Ottocento parlò di «imitazione contagiosa» e «società dell’imitazione». In seguito all’indigestione di liberalismo e capitalismo degli anni Novanta, da una decina di anni c’è stato un riflusso: «la sensazione di essere trattati senza rispetto» da parte del cosiddetto West era ed è diffusa nell’Europa centrorientale. «Fingere di governare se stessi mentre si è governati dai policy makers occidentali era già abbastanza pensoso. Il colmo era essere denigrati dagli occidentali […], che […] accusavano [i paesi dell’Est, NdA] di limitarsi a creare una parvenza di democrazia». Non dimentichiamo però che furono proprio gli stati dell’Europa centrorientale che «abbracciarono con entusiasmo l’occidentalizzazione». Tale «imitazione era giustificata come un “ritorno in Europa”».
Alla lunga però, la “conversione” al liberalismo – in zone dove questo non era mai di casa – negli anni ha mostrato le sue crepe. Nell’ordine, si sono susseguite «la vergogna di dover rimodellare le proprie preferenze per conformasti alle gerarchie di valore degli stranieri, farlo in nome della libertà e sentirsi guardare con riprovazione per la presunta inadeguatezza del tentativo: sono questi sentimenti e le esperienze che hanno alimentato l’antiliberalismo che ha preso avvio nell’Europa postcomunista». Il rigetto dell’ideologia liberale deriva da un grande malcontento di diversi strati sociali, che si sono sentiti via via “rubare” dal sistema occidentale l’identità riconquistata dopo il 1989.

Il processo di spopolamento dell’Europa centrorientale non ha aiutato chi rimaneva nel proprio paese a mantenere l’ottimismo verso l’Occidente e i valori liberali. Negli anni, sono infatti molti i giovani che hanno abbandonato l’Europa centrorientale e hanno lasciato sguarnita la “vecchia guardia”. A rimpiazzarli, nuovi valori importati dall’Ovest: «l’universalismo dei diritti umani e il liberalismo delle frontiere aperte come espressioni dell’arrogante indifferenza dell’Occidente nei confronti delle tradizioni e dei patrimoni nazionali dei rispettivi paesi.» E «mentre le élite liberali continuavano a parlare il linguaggio dei diritti universali, le controparti nazionaliste si appropriavano infine dei simboli e delle narrazioni nazionali».
Krastev e Holmes analizzano in particolare i casi di Polonia e Ungheria. «Nei primi anni dopo il 1989 il liberalismo era […] associato agli ideali di opportunità individuale, libertà di trasferirsi e di viaggiare, impunibilità del dissenso, accesso alla giustizia e sensibilità del governo alle esigenze dei cittadini. Nel 2010 la versione del liberalismo dell’Europa centrorientale era ormai […] guastata da due decenni di crescente diseguaglianza sociale, corruzione diffusa e redistribuzione moralmente arbitraria dei beni pubblici, finiti in mano a pochi.» Questo ha scatenato rabbia e protesta sociale: il ritorno agli autoritarismi, all’uomo forte, allo svuotamento del parlamento, alla repressione delle opposizioni. La crisi economica del 2008 ha messo la pietra tombale sul liberalismo occidentale esportato nell’ex universo comunista; «da allora il liberalismo non ha più riacquistato il suo prestigio nella regione.»
Gli autori sottolineano come dopo il 1789 e nel 1917 a lasciare il proprio paese furono i nemici sconfitti dai rivoluzionari; il fenomeno inverso accadde nel 1989, quando «a scegliere di trasferirsi furono i vincitori, non i perdenti delle rivoluzioni di velluto», che decisero di spostarsi ad Ovest. Non solo per opportunità lavorative, ma anche per poi un giorno importare nel paese d’origine quanto appreso. Negli anni, l’esodo dei giovani ha «compromesso gravemente, forse in modo irreversibile, la probabilità dei partiti liberali di ottenere buoni risultati alle elezioni». Ne deriva che sia significativo che «i partiti liberali ottengano il successo maggiore tra gli elettori che votano all’estero»; il caso rumeno fa scuola. Nel 2014 Klaus Iohannis, liberale di etnia tedesca, venne eletto Presidente a Bucarest perché trecentomila residenti all’estero votarono in massa per lui. «In un paese in cui la maggior parte dei giovani smania per partire, il fatto stesso di essere rimasto […] ti fa sentire un perdente e ti prepara anche ad acclamare i demagoghi antiliberali che denunciano l’occidentalizzazione come un tradimento della nazione».

D’altra parte, ha spiegato Milan Kundera – anche lui emigrato da Est a Ovest, ma per motivi diversi – le piccole nazioni sanno che la loro esistenza è costantemente messa in dubbio e potenziale preda dei pesci grossi. I piccoli paesi sanno che possono scomparire, cosa di cui tener conto quando si analizzano le sparate di Viktor Orbán o Jarosław Kaczyński. Non è dunque un caso che l’Europa occidentale sia più multietnica ed eterogenea rispetto a quella centrorientale. La combinazione tra emigrazione dei “propri” giovani e ingresso del “diverso” (sebbene siano stati pochi i migranti accolti da Ungheria e Polonia) è allarmante per i leader populisti, che coltivano l’astio nei confronti del multi-nazionalismo e promettono la democrazia illiberale.
La reazione liberale di fronte a problemi legati a migrazioni e identità è controproducente: «i liberali post-nazionali tendono a considerare l’etnonazionalismo, o la convinzione che i cittadini odierni abbiano un mistico legame morale con i loro antenati biologici, un fenomeno atavico e irrazionale.» Da aggiungere che «poiché invocano con fervore la tradizione quale antidoto all’imitazione, i populisti dell’Europa dell’Est sono costretti a riscrivere periodicamente la storia della propria nazione.» Va da sé che il modello della democrazia illiberale viene visto come vincente. Corroborato con il nazionalismo mascherato dall’idea di tradizionalismo politico, la classe dirigente di alcune amministrazioni dell’Europa centrorientale rifiutano l’abbraccio liberale post-crollo del Comunismo, così come rifiutano di omologare la loro tradizione all’elitismo dell’Occidente, ma nel frattempo, i giovani continuano a prendere la via dell’Ovest.