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Sono stata la Dama Bianca: il mio racconto sul femminicidio che attraversa secoli

La storia della Dama Bianca di Duino, vicino Trieste, è una leggenda locale riportata nel sussidiario scolastico e che mi trasmette ancora profonda angoscia

Elisabetta de DominisbyElisabetta de Dominis
Sono stata la Dama Bianca: il mio racconto sul femminicidio che attraversa secoli

Il rudere del castello della dama bianca a Duino, visto dal mare (Foto di E.D.D.)

Time: 10 mins read

Ricordo tutto, ora. Sarebbe meglio non ricordare. Quella notte di un anno fa è finita la mia vita. E sono viva. E sono isolata come un’appestata. E soffro da cani. L’ignobile racconta che sono impazzita perché nessuno venga a trovarmi. Mi fa controllare a vista. Avrebbe voluto che non mi risvegliassi dal coma. Ma è vita questa? Sono imprigionata. E siamo nel XX secolo. Il destino della Dama Bianca è il mio destino. Perché lui è sempre lo stesso: l’assassino che ho sposato.

Prima ha assassinato la mia anima. E senza anima non si può vivere. Ora, come un avvoltoio, attende il mio corpo esangue. Per farlo finalmente scomparire e rifarsi una vita con una donna ordinaria che ha plagiato per servirlo. Sufficientemente brutta e stupida per garantirgli la fedeltà di cui il suo animo insicuro ha bisogno per sentirsi uomo.

Che ero bella da morire, mi disse Gianguido la prima volta che ci incontrammo; aveva voluto conoscermi dopo il torneo che avevo disputato al Tennis di Opicina. Era l’estate del 1959. Mi invitò a vedere la sua nuova casa, che aveva fatto costruire sulla falesia che sovrasta la baia di Duino. Scendemmo tra la boscaglia in una spiaggetta a prendere il sole e mi indicò sulla sinistra i ruderi dell’antico castello dei Duinati raccontandomi la leggenda della Dama Bianca, che vi aveva abitato quasi mille anni prima. Il marito l’aveva gettata in mare dal loggiato, per gelosia. Si era sfracellata, rimbalzando contro le rocce, ma non era morta. Uscita dall’acqua, aveva tentato di risalire il dirupo, mentre il sangue usciva copioso dal suo corpo. Il cielo ne ebbe pietà e la impietrì. Ogni notte il suo corpo ridiventa umano e lei vaga per le stanze del castello alla ricerca della figlioletta. E urla da secoli.

Fui percorsa dai brividi e mi pervase una sensazione d’insicurezza, per non dire di paura, che non mi lasciò più. Era il suo primo messaggio per asservirmi e non lo capii, perché scambiai quei brividi per la sensazione di piacere provocata dal suo sguardo concupiscente.

E’ quasi impercettibile il confine tra piacere e dolore ed era la prima volta che li provavo entrambi: non li seppi riconoscere e separare. Complici le sue dolci parole che, ora so, erano solo parole di possesso.

“Alba, sarai la mia regina, avrai tutto quello che vuoi. Sono pazzo di te. Staremo sempre insieme, non dovrai lavorare”.

“E il tennis?” chiesi frastornata: “Sono una campionessa nazionale…”

“Potrai andare a giocare quando vorrai, ma voglio che tu mi dia subito dei figli e non credo che sarai in grado di continuare a praticare questo sport a livello agonistico”. Entrammo in acqua e i nostri corpi si avvinghiarono. Sentii che quel bacio mi trascinava in fondo, ma non ebbi paura, ero abituata a tuffarmi nel nostro mare: stavolta avrei trovato l’amore.

Ho saputo dal medico dell’ospedale che sono rimasta in coma per un anno. Gianguido invece aveva solo perso i sensi: i vetri del cruscotto gli avevano ridotto il viso a una maschera di sangue. Glielo hanno ricucito con 16 punti di sutura dall’occhio alla guancia destra. Mi odia perché, secondo lui, è sfigurato per colpa mia. Mi chiama “strega”.

Mi ha portato dall’ospedale in questa casetta, non lontana dalla nostra villa, dicendomi che quando sarò guarita potrò rivedere la nostra bambina. Per ora no, perché vaneggio: penso di essere la Dama Bianca, sono pazza. Forse lo sono. Ma, grazie al coma che ho subito, ho trovato me stessa; ho capito chi sono stata e non devo essere più. Ero la dama Bianca perché sono stata una donna innamorata come la Dama Bianca. Ho sofferto per amore, ho rovinato la mia vita. Ho creduto alle parole, alle lusinghe, alle promesse di un uomo che voleva soltanto conquistarmi per avermi in suo potere. E si conquista uccidendo.

Lui non mi vuole più. E con la scusa della mia pazzia, mi tiene lontana da mia figlia. Mi sono accorta di vivere con un bugiardo quel pomeriggio, prima di andare alla festa a Trieste. Ero rientrata a casa da una nuotata, come facevo ogni giorno, nella baia. L’ho scorto baciarsi in giardino con la baby sitter. Sono rimasta impietrita e gocciolante: mi sembrava di essere bagnata dal sangue della mia anima lacerata. Quella ragazzina insulsa, perché? Non so come sono riuscita a vestirmi e ad andare con lui a Trieste. Dovevo stare calma, muta: l’adulterio è un reato solo femminile, avrebbe potuto accusarmi a sua volta se voleva disfarsi di me. Ma non sono riuscita a trattenermi più quando, mentre tornavamo a casa in Porsche lungo la costiera, Gianguido mi ha accusata di essere l’amante di Marco, che avevo conosciuto quella sera. Ha schiacciato l’acceleratore, ero terrorizzata: alla nostra sinistra c’era lo strapiombo. Ha urlato: “Stai zitta, troia! Se ne sono accorti tutti di quello che sei. Non ho più intenzione di farmi coprire di ridicolo come stasera che amoreggiavi con quel tanghero. Eri una serva e ho fatto di te una principessa. Tu sei un’adultera: io ti denuncio! Finirai in carcere con il tuo amante. Finalmente sarete separati”. Ero furente: “Porco, io non ho nessun amante! Mi hai voluta perché ero bella, ti piacevo, ma ti piacciono anche tutte le altre. A te basta che respirino. Perfino la baby sitter! Stasera ho fatto la sciocca deliberatamente”. Gianguido mi diede uno schiaffo, gli graffiai il viso. Uscimmo di strada, sbattendo contro la parete rocciosa sulla destra. E la mia strada con lui in questa vita è finita. Ma sono ritornata alla vita e non voglio un’altra strada. Talvolta è la strada che imbocchi a portarti verso la sfortuna. Vivo un’altra vita, nel passato. Ora so quello che è successo quasi mille anni fa qui, a Duino, tra Federico da Ritisperga ed Esterina da Portole. Perché lei parla al mio cuore la notte, quando non riesco a dormire.

Io un uomo così possente non l’avevo mai visto… la sua apparizione al castello di Portole mi rapì il cuore, sebbene fossi stata costretta a questo matrimonio.

“O Federico da Ritisperga, maestro d’armi dell’imperatore Corrado, o il monastero” mi aveva detto perentoria mia madre. Non dovevo nemmeno pensare a un’altra possibilità di vita futura. Il Patriarca di Aquileia aveva fatto l’onore a mio padre di darmi in sposa a Federico. Non c’era nulla da discutere. Poppone voleva un’alleanza tra Duino e Portole per presidiare la via Sclavorum che collegava Aquileia all’Istria. Il signore di Duino aveva armati per questo compito e mio padre gli avrebbe dato due fuste in dote per respingere i pirati narentani.

Lui di me voleva fare solo un’eco. Ho sbagliato a vederlo come un dio, a considerarlo il mio. E non ho visto la sua misoginia, la sua superbia, la sua prepotenza. Si vantava di essere superiore agli altri. Perché non ho pensato di non essere esclusa dal gruppo degli inferiori?

A noi donne hanno insegnato a trasformarci per compiacere l’uomo. Avrei dovuto invece trasformarmi per sfuggirgli, come insegna Ovidio ne Le Metamorfosi.

Non sappiamo che l’uomo si trasforma quando ti ha catturata. Tutto si fonda sul grande inganno matrimoniale. Tu non sei più quella che credevi essere, lui non è quello che sembrava essere. Ci siamo fatte ammaliare dalla sua immagine, da come appariva e da quello che ci offriva. Da visioni e parole. I fatti sono venuti dopo e non erano quelli che lui ci aveva fatto sognare. Non bisogna mai far propri i sogni altrui. In verità, nessun uomo si trasforma davvero: mette solo una maschera che prima o poi cade.

Sono stata Eco: mi sono innamorata di un Narciso che amava solo se stesso. Mi infiammavo al guardarlo, ero sempre pronta ad ascoltarlo e a ripetere le sue parole per compiacerlo. Perché lo amavo. In cambio ho ricevuto solo disprezzo. Sono deperita da far pietà e Federico mi evita: mi ha relegata lontano dai suoi occhi e dalla mia bambina, al pianterreno della torre, dove il mio unico conforto è la luce del giorno che penetra da questa finestra illuminando il mio leggìo. Non ho più nulla da perdere: gli scrivo.

“Federico, hai desiderato solo te stesso e di questo amore hai trovato conferma in tutti gli sguardi femminili che hai incontrato e conquistato. Ma non hai capito che quello che hai bramato non esiste, perché non si può desiderare se stessi. Ed io non ho capito che mi sono annullata nel tuo sguardo: vi guardavo e vedevo te, te… Solo te, perché tu non vedevi me.

Non te ne faccio una colpa: la colpa è mia che mi sono specchiata in te. E’ perfino inutile gettare via lo specchio dei nostri sguardi dove non ci siamo incontrati. Come potrò più vivere ora che ho conosciuto me stessa? Sei stata la mia acqua che non riuscivo ad afferrare. Che questa liquidità ci divida per sempre.

Ti sei stancato del mio amore. Sei incapace di provare compassione né la voglio. Io non sono una tua serva. Ti sei servito del mio corpo come della mia dote. Mi hai logorata esigendo che fossi solo un’eco di te stesso: alla fine non resta nulla di una donna che è solo una voce. Io non avrò neppure più voce ma resterò la tua ombra, di cui dovrai vergognarti”.

Una notte, durante un temporale, dalla torre scorsi una barca in balia delle onde sparire dietro alla roccia su cui si erge il castello. Federico era lontano a combattere gli invasori e scesi alla spiaggia per vedere se vi erano superstiti. Trovai il corpo di un ragazzo sul bagnasciuga: era ancora vivo. Lo trascinai al riparo, sotto una grotta, gli tolsi i vestiti bagnati e l’asciugai con la veste. Lui era molto bello. Lo guardavo, mi guardava: nessuno mi aveva mai guardata così. Era sfinito, non riusciva quasi a parlare, ma mi disse: “Sei bella come il sole”. Sentii il suo sguardo d’amore diffondersi in me. Me ne andai dicendogli che sarei tornata con dei viveri. Ritornai dopo il tramonto, per non essere vista, con acqua, cibo, vestiti e coperte. Così per un po’ di giorni. Al castello dicevo che andavo al tempio del dio Sole, i cui antichi resti si trovano nelle vicinanze.  Dapprima la gente pensò fossi strana, poi qualcuno, presumo, mi seguì e informò il suo signore.

Federico mi fece chiamare: salii con il cuore in gola i gradini che conducevano alla loggia. Forse la collera per la mia lettera gli era passata e aveva compreso il mio amore, pensai. Avrei rivisto la mia cara bambina.  Quando arrivai, la piccola era tra le braccia della nutrice che mio marito stava baciando… Mi avventai su di lei per strapparle Alma. L’ignobile mi spinse via verso la finestra, urlando: “Pensi di poter baciare chi vuoi solo tu?” Risposi con un filo di voce: “Io non ho baciato nessuno… Come ti permetti? Sei stato il mio unico uomo e ti ho amato dal primo momento che ti ho visto”.

“Falsa!” Incalzò. “Ho avuto testimonianza che te la facevi con quel naufrago…”

“L’ho soccorso e gli ho portato da mangiare per alcuni giorni. Credo se ne sia andato”. Rideva.

“Sì, l’ho fatto andare via io!” Impallidii: “Dove l’hai mandato?” “Al creatore”. “Sei un bastardo! La legge di Dio e quella del mare comandano di salvare i naufraghi. Se fossi stato tu al suo posto?” “Smettila di ciarlare, puttanella. Non ti sopporto”. Indietreggiai verso il davanzale del loggiato per evitare che mi colpisse il viso. Si avventò su di me; gridava: “Stavolta ti ammazzo!” E il mio cielo si capovolse.

Sono una roccia, ora.  Si diventa sempre quello che non si è stato. Il tempo ti cambia come non avresti mai voluto. Non c’era altro modo per restare qui, a vegliare su Alma.

Quando lui, il mio amato non-bene, mi gettò dal loggiato, prima di finire nel profondo per sempre, rotolando giù mi sfracellai contro la pietra su cui si ergeva il nostro castello. Carne e sangue chiazzarono di me la rupe. Ricrebbi pietra. Qualcuno disse che ero riaffiorata dal mare e, tentando di risalire il costone, mi ero pietrificata.

L’amore ha sempre cambiato noi donne. La metamorfosi è solo un tentativo di sopravvivere in altra forma a un’esistenza invivibile.

Prima di salire quelle maledette scale, stavo leggendo Ovidio, leggevo sempre nella mia camera-cella mentre guardavo il mare, e quell’ultima frase me la sono portata con me; mi ha trasformata. “La voce esiste ancora; le ossa, dicono, presero l’aspetto di sassi”.

Ora sono poca cosa, ma sono qui abbarbicata, inattaccabile e inscalfibile.

La chiamavano “la Dama Bianca” non solo per il candore della sua pelle, ma per quel suo animo candido come la schiuma del mare, come le piume di un gabbiano. E’ volato via dopo che il suo cuore si è pietrificato per troppa sofferenza. Raccontano che quella sagoma velata di roccia bianca sia lei mentre cerca di risalire il dorso scosceso sotto la rocca. Anche a me piace crederlo. Ma lei era una roccia prima, non dopo. Dopo, cadendo, ha trovato la libertà nell’aria e, se ha avuto pace negli abissi, è perché il mare sa essere candido come lei.

Mi comporto bene da quasi un anno, non sostengo più di essere la Dama Bianca e oggi potrò rivedere Aurora in mezzo ad altri bambini durante il suo festino, ma non dovrò rivelare che sono la sua mamma. Aveva quasi quattro anni quando successe l’incidente e lui dice che non si ricorda di me. 

Non è vita questa. Non ho più la mia, a cui ho rinunciato sposandomi, né quella matrimoniale. Non posso rifarmi una vita né vivere con la mia famiglia. Lui vuole cancellarmi, uccidermi. Allora lo faccio io. E finalmente la gente si chiederà il perché. Perché Gianguido mi vuole morta. Mi ha voluta proprio perché ero bella da morire.

Non mi sento più specchiata in lui e sono morta a me stessa. Però mi sono trasformata: sono rinata a una nuova esistenza. Non umana, ma immortale. Se il prezzo dell’immortalità è la morte, la accetto volentieri. Del resto in questa esistenza, lontana dalla mia bambina, vivo come se fossi morta. Non si vive senza affetti. Ma si può vivere per sempre nel ricordo che forse servirà ad altre esistenze.

“Gianguido, mentre leggi questa lettera, mi stai guardando per l‘ultima volta ed io non ti vedo già più. Eccomi appesa al soffitto come lo sono stata all’altalena della vita trascorsa con te. Voglio che mi ricordi con questo bianco abito nuziale, come mi hai vista nel giorno più bello della mia vita. Quanti sogni avevo allora…

Ho utilizzato per l’ultimo viaggio la sciarpa rossa che mi donasti e che indossavo il giorno dell’incidente. E’ ancora sporca di sangue…

Alla mia amata Aurora dì che mi sono distesa nel letto e addormentata per sempre. Ma che la mia anima le sarà sempre vicina.

Hai reso la mia vita un inferno e so che vado in un posto migliore. Goditi la vita perché è breve e l’inferno poi sarà lungo. Addio”.

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Elisabetta de Dominis

Elisabetta de Dominis

Detesto confondere la mia vita con un curriculum. Ho ballato e sognavo di nuotare, ho nuotato e sognavo di cavalcare, ho cavalcato, studiato, mi sono laureata mentre facevo la stilista e sognavo di fare la giornalista, ho collaborato con una ventina di testate nazionali, diretto una rivista, ho fatto l’esperta di quasi tutto, dal food al fashion al sex, ho viaggiato e sempre volevo essere da un’altra parte, libera di inseguire l’ultimo sogno.

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