La fuga dei talenti. Storie di professionisti che l'Italia si è lasciata scappare (Edizioni San Paolo 2009). Non c'è bisogno di una introduzione e togliere spazio all'intervista, spiega già tutto il titolo del libro di Sergio Nava, giornalista classe 1975, che lavora a "Radio 24 Sole 24 Ore" occupandosi di notizie internazionali, soprattutto sull'Unione Europea e gli Stati Uniti.
Allora Sergio, nel tuo libro e poi anche nel tuo blog fugadeitalenti.wordpress.com, aggiornato con nuove testimonianze di giovani italiani all'estero, troviamo esperienze da tutto il mondo e tutte importanti: ma se dovessi scegliere la più emblematica, quella che dovrebbero leggere coloro che hanno le maggiori responsabilità di quello che accade in Italia, quale sceglieresti?
«E' difficile scegliere una storia in particolare: io dico sempre che tutte queste 27 storie, insieme a quelle pubblicate sul blog fugadeitalenti.wordpress.com, costituiscono un puzzle di racconti e giudizi, che -una volta letto nella sua interezza e tassello per tassello- restituisce un'idea chiara di cosa sia diventata l'Italia. Ovviamente in negativo. Premesso questo, se proprio devo estrapolare una storia "simbolo", potrei citare quella del compositore Oscar Bianchi, che vive tra New York e Parigi. Perché? Per tre semplici motivi: il primo è che Oscar incarna perfettamente il paradosso di un artista che nel suo Paese, una delle nazioni culla dell'arte a livello mondiale, si sente continuamente ripetere: "Ma il tuo vero mestiere qual è?" Come se fare il compositore fosse un hobby… Il secondo è che Oscar ha vissuto in prima persona gli effetti della gerontocrazia frustrata e perversa che domina l'Italia, esiliandone i giovani più di talento e meritevoli. Il terzo è per la sua splendida frase, che appare anche in copertina, e che penso fotografi alla perfezione l'Italia del XXI° secolo: "Il nostro è un sistema interamente basato sullo scambio di potere. Un sistema dal quale i giovani sono tagliati fuori, perché non hanno nulla da offrire, al di fuori del proprio talento"».
C'è comunicazione tra i giovani italiani che hanno avuto il coraggio e la tenacia per fuggire all'estero e quelli che invece sono rimasti in Italia, anche se coscienti della situazione? L'unione tra quelli che partono e quelli che restano pur soffrendo, potrebbe fare la forza per cambiare le cose?
«Questa unione potrebbe cambiare molte cose, ma purtroppo ancora manca. Nel libro ci sono giovani, in particolare cito Teresa Fiore (docente di letteratura e cultura dell'emigrazione negli Usa), che auspicano un maggior contatto tra chi parte e chi resta. Lei stessa porta avanti dei piccoli progetti di interscambio tra Stati Uniti e Italia, ma vorrebbe poter fare ancora di più, per restituire qualcosa di positivo al proprio Paese di origine. In altri giovani emigrati (non tutti) ho percepito questa esigenza di maggior contatto con la madrepatria e con i coetanei che vi risiedono, soprattutto con quelli che hanno realmente voglia di cambiare le cose. Purtroppo, però, molti di coloro che partono finiscono col sentirsi abbandonati all'estero. Da un lato trovano condizioni di vita e di lavoro che in Italia si sognerebbero, dall'altro -quand'anche provano a rientrare- non riscontrano spesso e volentieri un reale interesse verso il proprio profilo professionale, nonostante le solide competenze sviluppate. E per questo si disamorano dell'Italia, manifestano -a ragione- una sorta di sfiducia, che li porta a tornare qui solo ed esclusivamente in vacanza. E' il "rischio Disneyland" che corre questo Paese, se non riuscirà a darsi il colpo di reni necessario: belle spiagge, bel clima, bei monumenti. Tutto questo avvolto in una società corrotta, immeritocratica e gerontocratica».
Fedeltà e appartenenze a danno di merito e competenza: giusto specchio della società italiana, ma è un ritornello ripetuto ormai da anni. Il tuo libro indica il cancro d'Italia nella mancanza della "meritocrazia" nel processo di selezione dei giovani in tutti i campi, ma non è stato forse sempre così in Italia? Le "appartenenze", le "tessere di partito", le telefonate all'onorevole o al vescovo per "sistemarsi", insomma "il mi manda Picone"… Eppure nel secolo scorso, pur con questa "zavorra" che potremmo chiamare "familismo amorale nel mercato del lavoro", l'Italia è diventata una potenza economica mondiale. Perché un sistema con cui l'Italia ha ben convissuto per decenni, adesso manderebbe in rovina il Paese?
«Perché il mondo è cambiato. E anche perché il sistema è semplicemente degenerato. Mi spiego meglio: nel Dopoguerra il sistema di pesi e contrappesi tra Usa e Urss aveva messo l'Italia in una situazione sostanzialmente privilegiata. Ago della bilancia al centro del Mediterraneo, l'Italia e la sua economia hanno vissuto per decenni grazie anche a finanziamenti più o meno sommersi in arrivo dalle due superpotenze. Entrambe hanno ovviamente finanziato cause e finalità opposte, ma alla fine il flusso di denaro garantiva una rendita extra che poteva persino oliare certi meccanismi non esattamente "meritocratici". Diciamo così: più "relazionali". Ora viviamo nell'epoca della globalizzazione. Può non piacere, ma è così: una volta superata questa crisi e le varie tentazioni protezionistiche torneremo a competere con le vecchie e le nuove potenze emergenti. Chi ha un sistema sano e una forte propensione all'innovazione resterà in piedi e correrà per le prime posizioni, gli altri (è il caso dell'Italia) sono destinati al declino. Basti pensare che -già prima della crisi- il nostro Paese cresceva da anni a tassi molto più bassi rispetto agli altri partner europei. Sopravanzavamo solo il Portogallo! E' quindi un declino strutturale e non congiunturale. Punto secondo: pur nel "familismo amorale", l'Italia -almeno fino ai primi anni '70- sapeva selezionare una classe dirigente, spesso di rango. Sono certo che un trentenne italiano negli anni ‘60 o '70 avesse molte più probabilità di entrare nella "stanza dei bottoni" di un partito o di una impresa, che non ora. Poi è arrivato il '68, ed è sopraggiunta una classe dirigente che ancora oggi si ostina a non lasciare certe posizioni-chiave. Per dirla col regista Mario Monicelli, "l'Italia è una barca che due generazioni di classe dirigente hanno ormai portato alla deriva. Per salvarla ci vorrebbe un nuovo equipaggio"».
Emerge che tutto è già stato scritto, tutto è alla luce del sole. Nel tuo libro si citano continuamente articoli di giornali nazionali e i puntuali studi di centri di ricerca che forniscono dati scandalosi. E poi, soltanto poco tempo fa il libro "La Casta" di Stella e Rizzo aveva battuto i record di vendita. E per sapere come "funziona" l'Italia, non bisognava certo aspettare i libri, il cinema da sempre ha descritto per primo i mali della società italiana, il primo che mi viene in mente è lo straordinario e tristissimo film di Monicelli con Alberto Sordi, "Un borghese piccolo piccolo", che già negli anni Settanta mostrava il nostro tipico italiano che si fa pure massone per cercare di sistemare il figlio in banca…. In Italia non c'è più nulla da denunciare perché si sa già tutto, quella che manca è la reazione. Ma da chi? I giovani italiani sembrano "anestetizzati", tranne ovviamente quelli nel tuo libro che però sono in fuga… Siamo alla favola del lupo al lupo? L'Italia sta per essere sbranata dai suoi stessi mali senza che le sue giovani generazioni siano in grado di cambiarla?
«E come potrebbero? Avrebbero tutte le caratteristiche per farlo, ma sono emarginate. In Italia non conti nulla (tranne rari casi) finché non hai almeno 40 anni. I giovani italiani di oggi hanno le carte in regola per rimettere in sesto il Paese: spesso e volentieri hanno viaggiato all'estero, per studio e/o lavoro, per cui hanno ben presenti modelli migliori cui rapportarsi per cambiare le cose. Conoscono a menadito le nuove tecnologie. Soprattutto, chiedono più meritocrazia. Ma semplicemente non esistono. Ecco, se ho un appunto da muovere è proprio questo: la loro incapacità di fare massa critica, di creare un movimento dal basso che imponga il cambiamento, che mandi a gambe all'aria questo sistema gerontocratico. Citavo poco fa il '68: con tutti i suoi difetti, quantomeno ha testimoniato l'esistenza di un movimento giovanile che aveva delle precise rivendicazioni. Ora cos'abbiamo? L'Onda, gli studenti universitari che protestano contro i tagli ai finanziamenti agli atenei? Mi sembra un po' poco… Il problema è proprio questo: nessuno di noi ce la fa più a vedere la nostra generazione e quelle successive "sprecate", ma nessuno ci mette la faccia per cambiare realmente le cose. Preferiamo attendere un miracolo che non arriverà mai. E quando ci sveglieremo sarà già troppo tardi»..
Nel tuo sito fugadeitalenti.wordpress.com hai anche posto delle domande al Presidente del Consiglio Berlusconi, e una anche al leader del Pd Franceschini. Li esorti soprattutto a rispondere del perché, nonostante le belle parole, nei fatti non valorizzano in politica i giovani meritevoli. Su questo, destra e sinistra in Italia sono la stessa cosa? Le liste dei candidati alle Europee segnalano che la "gerontocrazia" non molla il potere?
«Vedo molto poco, se non qualche bello spot elettorale. Entrambi i partiti fino a un anno fa esprimevano due leader anziani, ora se non altro il Pd ha in Franceschini un rappresentante relativamente -relativamente- più giovane. Anche se, alle sue spalle, la vecchia classe politica ex-Ds o Margherita attende una sua sconfitta per riprendere in mano le redini del partito e fargli la festa. Berlusconi è il leader più vecchio, nell'Europa che conta. Non basta inserire due o tre giovani laureate in lista per gridare al cambiamento. Il cambiamento passa dalla leadership reale, non dalle foto sui manifesti elettorali. Per rispondere alla domanda: sì, purtroppo anche questa volta è stato fatto troppo poco per fornire concreti segnali di cambiamento. Io ho proposto più volte sul blog di candidare a Strasburgo giovani trentenni dal forte background europeo (per studi ed esperienze professionali). Giovani che sanno cos'è realmente l'Europa e quali possano essere gli interessi italiani nell'Ue. Beh, dove sono?».
A proposito: si contesta Berlusconi quando vuole candidare una giovane con le misure giuste ma anche quando conferma nelle liste elettorali qualche apparatcik ex DC o ex Psi con mezzo secolo di manovre in politica: cos’è peggio?
«Mi verrebbe da rispondere entrambi. Ma paradossalmente la giovane aspirante velina “con le misure giuste” (che -dicono i mass-media- sarebbe stata fatta fuori dalle proteste della ormai ex moglie Veronica) è persino peggio dell’ex Dc o Psi. Sai, se c’è una cosa che non tollero è la presa per i fondelli. I giovani italiani che racconto, insieme a molti altri che conosco e che vivono ancora in questo Paese, non hanno nulla da spartire con veline o tronisti del pomeriggio di Canale 5. O con i “replicanti-attori” del Grande Fratello-Big Brother. Si parla tanto di ringiovanire la classe dirigente italiana… e la risposta è mandare avanti veline o tronisti? A quel punto teniamoci l’apparatcik. Sarà pure il peggio del peggio, ma quantomeno ha un’idea di cos’è far politica. Comunque così non va proprio bene: vedo troppa ipocrisia in giro. Troppe promesse di meritocrazia e ringiovanimento buone solo a riempirsi la bocca. Anche perché a farle sono i soliti gerontocrati, il cui interesse verso i giovani è zero. O, quand’anche c’è, non riguarda esattamente le loro qualità curriculari…».
I giovani italiani sono stati chiamati “mammoni”, “bamboccioni” etc Oltre ad un sistema marcio con regole da cambiare, quanto conta la mentalità dei cittadini-genitori italiani? Esempio: la mamma e il papà della giovane Noemi Letizia, appaiono felici promotori dell’amicizia particolare con “Papi Silvio”, scorciatoia sicura per le aspirazioni – addirittura anche politiche – della bella (ma quanto meritevole?) figliola… Cioè per cambiare il sistema Italia, bisognerà soprattutto cambiare la testa degli italiani? “Vaste programme” direbbe il generale De Gaulle….
«Sicuramente andrebbe cambiata la testa degli italiani, a partire dai genitori. Non dico che siano tutti così, ma troppe famiglie preferiscono la “scorciatoia”. E’ una mentalità ahimé diffusa, e non riguarda solo il mondo dello spettacolo. “Sistemare” il figlio, al di là dei suoi reali meriti, è una tendenza che accomuna, pur con gradi diversi, il Nord al Sud. E’ chiaro che il figlio, se non è fortemente motivato, rischia di “sedersi” in questo sistema di scambio di favori. Che alimenta una società feudale. Io lo grido da mesi sul blog: l’Italia è Medioevo, altro che potenza economica mondiale».
“… realizzare un processo di vera liberalizzazione della società, dell’economia, del mercato, dell’accesso alle professioni, della libertà d’impresa. E garantire che tutto questo si accompagni ad una maggiore equità sociale, ad una espansione dei diritti individuali, ad una partecipazione diffusa che non si rinchiude nella difesa corporativa degli interessi…. Migliorare la propria condizione in rapporto al talento, al merito, alle capacità che si hanno. Solo una reale uguaglianza delle opportunità rende possibile la competizione. Senza regole uguali per tutti è inevitabile che vinca il più forte, il più ricco, il più garantito…. Non è possibile che il talento e la professionalità di un giovane debbano sottostare ai vincoli di un ordine professionale che non lo accoglie soltanto perché quel ragazzo non ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia “giusta”. C’è un’Italia stanca, che non sopporta tutto questo. Che vuole godere di più libertà, per sé e per gli altri…. Una società che ha paura delle sue potenzialità, che trascura le sue migliori energie è una società che ha perduto slancio, tensione morale, speranza…. Bisogna dare di più a chi, in primo luogo i giovani, finora ha avuto di meno.”
Riconosci di chi sono queste frasi e quando sono state pronunciate? Che riflessione ti viene da fare in proposito? (Le frasi sono di Massimo D’Alema nel discorso pronunciato al Parlamento per la fiducia al suo governo, ottobre 1998)
«Ho passato buona parte del 1998 all’estero (per fortuna), per cui conservo pochi ricordi di quell’anno “italiano”. Mi ricordo solo che seguii col fiato sospeso l’ingresso dell’Italia nell’euro: avevo solo 23 anni, ma ero ben conscio dei rischi legati al restarne fuori. Cosa penso di questo discorso di D’Alema? Che al di là delle buone intenzioni, in undici anni sia cambiato lo zero virgola. Liberalizzazioni? Si è fatto qualcosa, ma dopo il tentato “strappo” di Bersani, si stanno facendo solo passi indietro, a favore di caste e corporazioni ben rappresentate in Parlamento e nei vari Governi succedutisi, incluso l’attuale. Valorizzazione dei talenti, al di là dell’origine famigliare? Non mi pare che sia cambiato molto, forse con gli anni è migliorata solo la selezione grazie alle multinazionali. Ma università, mondo della ricerca, piccola impresa ed aziende pubbliche od ex pubbliche mi paiono tuttora ancorate ai vecchi meccanismi. Dare più spazio ai giovani? Beh, qui mi viene da ridere. In Italia i problemi si risolvono coi bei discorsi. Manco fossero sostitutivi della bacchetta magica del mago Silvan. Da vent’anni i nostri politici parlano di ricambio generazionale a tutti i livelli. Ancora lo stiamo aspettando… Il nostro problema è la “chiacchiera”: quella sommerge tutto e annulla i problemi. Che però restano sul tappeto, tali e quali a come li ha lasciati la generazione precedente».
Nel tuo libro si parla molto di “ordini professionali” che limitano le opportunità dei giovani. Tra tanti, puntiamo il dito allora contro quello dei giornalisti, del quale penso anche tu farai parte: perché i giovani italiani che vogliono fare i giornalisti sono così “mansueti” a riguardo? Si mettono in fila, vanno a cercare la “raccomandazione” per il praticantato, fanno l’esame con qualche “segnalazione”… Insomma entrare in una casta, invece di protestare contro un sistema che porta l’indelebile marchio mussoliniano e che esiste solo in Italia? Alla fine è proprio per l’atteggiamento ben diffuso nei giovani italiani, dell’adeguarsi al sistema e tranne tutti vantaggi, che nulla cambia in Italia?
«Lo so, ma l’alternativa per loro -e sarò brutale- sarebbe vivere ai margini della società. Io sono uno dei pochi entrati nel mondo giornalistico per selezione. Mi chiamarono un giorno, dopo che avevo lasciato il mio curriculum in una di queste fiere del lavoro (Task ’99, si chiamava), e mi invitarono a una selezione per la mia attuale testata, dove ho poi svolto tutti i passaggi canonici. Pensa che a quel colloquio ho rischiato di non andarci: due giorni dopo sarei partito per la Germania! Ma mi chiedo chi non ha avuto una tale fortuna che cosa può fare… Morire di fame? Fare un altro lavoro, finendo i suoi giorni nella frustrazione più assoluta? A quel punto sono io il primo a consigliargli di espatriare. Gli ordini professionali prima o poi finiranno, ce lo imporrà un contesto internazionale avanzato che non ci lascerà scelta su come ristrutturare la nostra economia, eliminando tutte queste corporazioni. Ma nel frattempo? Torniamo al problema di prima. Manca una presa di coscienza generazionale dei ventenni e dei trentenni di oggi, che -come dici tu- preferiscono la “scorciatoia” personale all’impegno collettivo per cambiare le cose. Questo anche per una sfiducia verso un sistema che reprime ogni tentativo di cambiamento. Potrebbero provarci, a farsi movimento e strumento di pressione politica, ma chi li mette in rete? Non è semplice, i rischi di “manovre” esterne e pro domo propria sono sempre dietro l’angolo. Io col mio libro ho lanciato un piccolo sasso nello stagno: ho raccolto molti consensi e inviti ad andare avanti. Ma la cosa finisce lì. Un secondo dopo tutti tornano alla loro “lotta quotidiana”. Temo stiamo solo perdendo tempo: questa crisi ci offre una grande opportunità di ricambio generazionale. Ma non sta succedendo nulla. Quando ci sveglieremo per davvero sarà troppo tardi. E non sarà un bel risveglio».
Ma quando sono proprio i giovani a darsi da fare, in tutte le categorie professionali, per l’”appartenenza alle caste di privilegiati”, queste denunce dei giovani “fuggiti” all’estero raccolte nel tuo libro non rischiano di risultare per gli italiani in patria come stucchevoli e fastidiosi lamenti di una minoranza isolata che non potrà intaccare la coscienza della maggioranza, inclusi quei giovani che in quel sistema continuano a sguazzare?
«Non lo so. Spero di no. Ma se così fosse, verrebbe proprio dire che abbiamo il Paese che ci meritiamo. Dopotutto se l’Italia è ridotta in questo stato pietoso un motivo ci sarà. Lo “Stato” non è qualcosa di esterno. Noi siamo lo Stato. Se questa è la nostra condizione, siamo tutti -a livelli diversi- corresponsabili. E avremo la punizione che ci spetta. Mi spiace solo per le giovani generazioni, cui per qualche anno ancora mi fregerò di appartenere, le quali hanno le minori colpe. Chi ha 20 anni oggi e si affaccia terrorizzato a un mondo del lavoro che offre precarietà e paghe basse che colpa ha? Chi ha la famiglia “giusta” alle spalle non ha alcunché da temere, ma la maggioranza che non ce l’ha? E’ a loro che rivolgo l’appello: andate all’estero, fate le vostre esperienze, poi provate quantomeno a tornare e a cambiare le regole del gioco, facendo l’impossibile per entrare nelle posizioni di comando. Non scendete mai a compromessi. Io dico sempre che all’Italia non serve un solo Barack Obama: servono tanti Barack Obama, dalla mente aperta e dalla formazione internazionale, in grado con la loro carica innovativa di cambiare per davvero il Paese dall’interno. Siete l’ultima generazione che potrà salvare l’Italia. Ora o mai più»