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November 25, 2007
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La verità della sofferenza

Intervista con Mario Calabresi, figlio del Commissario ucciso dai terroristi a Milano nel 1972, autore del libro "Spingendo la notte più in là" (Mondadori)

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
La verità della sofferenza
Time: 12 mins read

Spingendo la notte più in là (Mondadori, 2007) è il bellissimo libro scritto da Mario Calabresi, figlio primogenito di Luigi, il Commissario di polizia ucciso a Milanonel 1972. Calabresi cadde sotto casa, ucciso a colpi di pistola dopo essere stato prima oggetto di una intensa campagna denigratoria alimentata da numerosi giornali che lo avevano indicato come il poliziotto responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della Questura nei giorni convulsi dopo l’attentato di piazza Fontana. Un libro, quello del figlio Mario, che finalmente racconta all’Italia una parte tragica della sua storia da una prospettiva diversa da come finora era stata divulgata. Il risultato è importante, quelle pagine sono una boccata di aria vera. Non un libro rabbioso, ma un libro al quale per far capire meglio cosa furono quegli anni basta semplicemente ricostruirli insieme a chi ha sofferto di più (nel racconto Mario entra in contatto con altri familiari di vittime del terrorismo ideologico).

Luigi Calabresi (Roma, 14 novembre 1937 – Milano, 17 maggio 1972)

Mario Calabresi è un mio amico, conosciuto 15 anni fa a Boston, prima che diventasse un giornalista famoso. Ero con lui durante la sua prima esperienza giornalistica, una bella intervista con Arthur Schlesinger jr, il grande storico americano recentemente scomparso. Da allora Mario non si è più fermato. Dopo essersi fatto le ossa all’Ansa, la chiamata a Repubblica, breve passaggio alla Stampa, e poi di nuovo al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari dove Mario è salito rapidamente fino al gradino di capo redattore centrale. Ora, per scelta passionale più che carrieristica (“forse potevo diventare vicedirettore, ma volevo venire a New York”) fa il corrispondente dagli Stati Uniti, il lavoro che aveva sempre sognato. Quel bambino costretto dalla follia degli assassini del padre a farsi forte per spingere le notti più in là, ora è un uomo felice. Sposato con Caterina, Mario Calabresi è padre di due gemelle nate proprio a New York.
Questo libro così importante per cercare di capire l’Italia e gli italiani, viene presentato alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University martedì 27 novembre, alle 6 pm. Oltre all’autore, ci sarà anche il direttore di Repubblica Ezio Mauro.

Quella che leggerete non si può definire una vera e propria intervista. E’ semmai un dialogo in cui si è cercato di provocare l’autore-amico per tirargli fuori quello che magari qualsiasi lettore si sarebbe aspettato di trovare nel libro. Ero arrabbiato per lui infatti, per la vita che quel bimbo aveva dovuto sopportare da quando era rimasto terrorizzato attaccato alla gonna di sua madre il giorno che disperata piangeva alla notizia che avevano sparato sotto casa ad un commissario. Cercavo certe parole da lui che invece, finalmente mi rendo conto, non ci potevano essere nel suo libro. Mario definitivamente convince che quel suo libro è perfetto così, perchè così fa conoscere meglio certe verità importanti, necessarie per capire veramente quegli anni. Non avrebbe potuto farcela una rancorosa rabbia in cerca di vendetta, ma solo la forza del carattere cresciuto in un bambino protetto dall’eroica madre Gemma, il carattere giusto di un giovane uomo capace di esprimere a testa alta la superiorità dei valori trasmessi da chi in quegli anni cadeva vittima della follia terrorista.

...con Mario Calabresi (Foto: Stefania Zamparelli)
Stefano Vaccara con Mario Calabresi (Foto: Stefania Zamparelli)

Mario Calabresi lavora da un ufficio in cima ad un grattacielo sulla Madison. Si vedono le luci di mezza Manhattan. Un attimo prima di accendere il registratore immaginiamo l’orgoglio del padre nel vederlo così in alto.

Per trent’anni negli scaffali delle librerie italiane si vedevano solo libri sul terrorismo scritti dai terroristi, mai dal punto di vista delle vittime. Era questo il tuo scopo, dar voce alle vittime?

“Il dibattito italiano sugli anni settanta e il superamento di quella stagione era fatto con una sola voce, quella degli ex terroristi, la storia la stavano raccontando solo loro, ed erano loro gli unici interlocutori della politica e dei giornali. Mancava completamente la voce delle vittime. Naturalmente queste non possono più parlare, ma mancava totalmente la loro memoria e mancava un punto di vista che facesse emergere come gli anni settanta, la stagione del terrorismo avesse lasciato il segno, nel senso di aver provocato lutti, distruzione, strappi e mancanze. Allora io per tanto tempo ho aspettato e mi auguravo di poter trovare un libro che invece riequilibrasse la situazione. Ad un certo punto non trovandolo mi sono detto: allora è proprio necessario fare questo libro, lo devo proprio scrivere.”

Ma perché si è dovuto aspettare così tanto, che dovesse arrivare un giornalista figlio di una vittima per scrivere questo libro, perché non è successo prima? Te lo sei spiegato il motivo?

“Diciamo così, le vittime sono più faticose, perché portatrici di dolore, faticose da gestire, certe volte possono essere imbarazzanti, certe volte possono essere recriminatorie, poi creano anche problemi, creano disagio, quindi era molto più facile rivolgersi a quelli che avevano sparato, gli ex terroristi i quali avevano delle storie più spendibili, anche più avvincenti, avevano continuato a vivere… cioè tutta la società ha avuto più attenzione, ha prestato più orecchio a quella parte.”

Il “cattivo” è sempre più affascinate del buono? Oppure perché molte coscienze sporche magari facevano sì che…

“Guarda il primo motivo è quello che dicevo prima, perché c’è una fascinazione verso quello che tu chiami ‘il cattivo’ ma ci sono altri motivi, uno di questi è una sorta di, chiamiamola compiacenza generazionale. Cioè la generazione di chi ha fatto gli anni settanta, anche la gran parte delle persone che hanno contestato la società e sono scesi in piazza quegli anni e poi non hanno preso mica le armi, non hanno sparato, per carità, però in un certo senso…”
Qui Mario fa una pausa un po’ più lunga, cerca le parole giuste, e dice: “Hanno evitato di giudicare con troppa severità, hanno cercato di salvare quegli anni”.

Hanno evitato di fare i conti col passato…

“Sì, non sono stati fatti i conti fino in fondo. Perché voleva dire per molti fare i conti con la propria gioventù, con gli anni dell’università, con gli anni di quando si è giovani e che sono gli anni in cui tutte le generazioni, chiunque ricorda sempre con nostalgia, dolcezza e per molti significava fare i conti con quegli anni e non hanno avuto voglia di farlo. E poi perchè nel mondo intellettuale italiano avevano riconosciuto tardi il fenomeno terroristico. Avevano riconosciuto tardi, per esempio, la sua appartenenza all’area della sinistra, lo avevano sottovalutato, ci avevano flirtato, basta vedere i documenti che accusavano mio padre, firmati da centinaia di intellettuali. C’era stato un conformismo intellettuale e quindi in un certo senso era più facile rimuovere, da parte di tutti, e cercare di chiudere la stagione piuttosto che riaprire…”

Allora questo libro ha dato fastidio a certe coscienze che…

“No, non ha dato fastidio in Italia, ha un grande successo di vendite. La reazione non è stata di fastidio. Devo dire che invece la reazione, anche in modo inaspettato per me, è stata di sollievo.  La reazione di chi mi ha scritto, di chi mi ha telefonato è stata ‘finalmente, siamo usciti da un conformismo in cui si dicevano sempre le stesse cose, sempre e solo una rilettura stereotipata, ecco finalmente si da voce…’ Tante persone normali che hanno vissuto gli anni Settanta, erano bambini, ragazzi o erano genitori, erano adulti e ricordavano l’ansia e l’angoscia in famiglia, con cui si viveva in Italia in quegli anni per la paura della violenza, ecco queste persone hanno detto: ‘finalmente si riconosce che la violenza ha portato distruzione, dolore…’ E anche tante altre persone, con grande onestà, che ai tempi stavano sulla barricata opposta a quella di mio padre, hanno trovato questo libro scritto in una forma dialogante, perché la mia idea non è di regolare i conti e usare il libro come un manganello. E’ un libro che vuole rimettere a posto le cose, restituire spazio alla memoria, però guardando avanti, perché il paese non può stare inchiodato in questo scontro perenne. Allora ci sono persone che sono state capaci di rimettersi in discussione, di riconoscere gli errori che sono stati fatti, riconoscere l’errore della violenza”.

La prima pagina di “Lotta Continua” del 18 maggio, 1972

Appunto nel dire che poteva dare fastidio, non mi riferivo al lettore normale, ma invece a chi deve avere la coscienza sporca perché pur ricoprendo certi ruoli, quando poteva dire o anche scrivere certe cose non lo ha fatto. Per non aver agito né allora né dopo, anche da posti di grande responsabilità… Ma si rimane sconvolti leggendo il libro quando si vede come tuo padre, dalla campagna di stampa contro di lui, sapesse bene cosa potesse capitargli, tu descrivi le lettere di minacce che lui raccoglieva dalla cassetta la mattina presto per non farle vedere a tua madre… Ecco, come è possibile uccidere il commissario Calabresi così, sotto casa? Nessuno lo proteggeva? Dove erano quelle istituzioni quando dovevano proteggere chi era più esposto?  Ci viene in mente Libero Grassi, l’imprenditore palermitano che dopo le denunce del pizzo viene ammazzato come un cane sotto casa, come Calabresi. O anche il povero professor Biagi, nonostante le minacce e le richieste di aiuto allo Stato e agli amici dentro le istituzioni, anche lui ammazzato sotto casa…  Come è potuto succedere, come si poteva ammazzare sotto casa Calabresi così facilmente, nonostante certi articoli che praticamente annunciavano la sua esecuzione su Lotta Continua…

“Perché era la prima volta! Mio padre è stato il primo in Italia ad essere ammazzato per motivi politici.  Probabilmente ci fu una sottovalutazione da un certo punto di vista grave, però non si pensava che questo potesse accadere, probabilmente, io penso. Guardando con il senso di poi è terribile, è tutto chiarissimo ma con il senno di allora forse non era così chiaro”.

Insistiamo, anche se ci viene difficile. Mario, eppure come racconti nel libro, tuo nonno avverte tuo padre, gli offre pure un lavoro per andare via da Milano, ma lui rifiuta

“No guarda, in famiglia la sensazione del pericolo era fortissima, mio padre sapeva. Probabilmente una sottovalutazione a livello…”

Ma la lezione non sì è imparata, vedi Biagi trenta anni dopo…

“E infatti io dico che la scorta mancata a Biagi è sicuramente più grave che la scorta mancata a mio padre”.

Quel particolare che il pentito Marino racconta nel processo, che l’attentato doveva avvenire il giorno prima ma non trovarono la macchina, infatti posteggiata altrove come era segnato nel diario di tua madre… Ecco questi riferimenti nel libro sono messi per sottolineare come tu e la tua famiglia credete al pentito Marino e alla colpevolezza degli imputati condannati?

“Se mi stai chiedendo cosa noi pensiamo del processo giudiziario, sicuramente per noi le sentenze sono corrette, le rispettiamo e pensiamo che il lavoro che è stato fatto sia stato serio e scrupoloso.”

Magari dei tempi della giustizia un po’ vi potreste lamentare…

“Beh, ci sono state le richieste di revisione etc etc che hanno allungato i tempi del procedimento. Ma quelli sono i tempi della giustizia italiana”.

Nel libro ricordi quando scopristi che nel Corriere della Sera ci furono soltanto 4 necrologi non dovuti per tuo padre. Che effetto ti ha fatto scoprire che la tua città, Milano, reagì così all’assassinio di tuo padre, un poliziotto?

“Ho capito che la propaganda costruita contro mio padre era stata talmente forte, talmente efficace, che lo aveva completamente distrutto da lasciarlo solo persino quando era morto. Secondo che la paura in città era talmente forte che nessuno voleva venire allo scoperto di essere dalla parte di mio padre. E terzo c’era un tale conformismo tra tutti quelli che avevano fatto la lotta contro mio padre che nessuno voleva uscir fuori, sono stati tutti zitti. La propaganda, la paura e il conformismo.”

I funerali di Luigi Calabresi

Per tanti anni nessuno ricorda con una targa Calabresi. Solo quest’anno la città di Milano ha ricordato il commissario assassinato. Perché tutto questo ritardo?

“Il motivo è lo stesso di prima. Perché in Italia non c’erano i libri, non si era mai coltivata la memoria delle vittime del terrorismo. Sono state rimosse e dimenticate. Mica mancava solo la targa di mio padre, ne mancavano e ne mancano tante altre… dall’altra parte perché su mio padre c’è stato per tanto tempo una sorta di macchia con questa campagna che era stata fatta contro di lui, di essere l’assassino dell’anarchico Pinelli che anche quando era stato, al di là di ogni dubbio dimstrato che mio padre non c’entrava nulla, era stata fatta ormai una campagna talmente forte che lo aveva comunque macchiato…”

Ma vuoi dire che chi fece questa campagna estremista riuscì a condizionare anche le istituzioni?
“In un certo senso sì, è così, sì. E sono riusciti anche a superare le generazioni. Oggi ci sono ancora dei ragazzini che ad una manifestazione per la Palestina gridano contro i militari italiani in Iraq e poi scrivono anche sul muro ‘Calabresi assassino’, parliamo di ragazzi nati nel 1988!”

Nel libro racconti del tuo incontro con Antonia, la figlia del poliziotto Antonio Custra, lei ti dice che uccidendole il padre gli hanno spezzato la vita… Nel libro fai vedere come le vittime siano molto diverse. Ma sei forse tu, con questa forza che spinge la notte più in là, l’anormale? Tu hai avuto la fortuna di avere una madre, Gemma Calabresi, sorretta da una grande fede, religiosa ma anche civile, un donna giovanissima al momento della tragedia e che si rivela fortissima e che salva la sua famiglia…

“Guarda che ci sono differenze anche nella mia famiglia, mio fratello più piccolo ha reagito diversamente da me. Perché le persone hanno percorsi diversi. Mia madre ha lavorato molto su di noi. Io so di tante altre donne vedove di terrorismo che magari non ce l’hanno fatta. Io conosco una famiglia alla quale è stato ucciso il padre, e magari non se ne parla più, si fa finta di niente. Si vive in questo dolore che magari non è stato mai affrontato perchè troppo grosso.”

Nel caso di Custrà, lei non sapeva neanche il nome dell’assassino di suo padre, glielo dici tu...
“Già, e questa estate lo ha incontrato. Questo l’ha aiutata, perché incontrandolo ha visto che oggi è un uomo distrutto e disperato, e questo, lei mi ha raccontato, le ha dato sollievo, sì vedere che non è che chi ha ammazzato suo padre abbia vissuto alla grande ma che ha pagato un prezzo. Col carcere ma anche con un senso di colpa. Questa persona le ha detto di essere devastata dall’idea di averle distrutto la vita. Questo le ha dato la sensazione di aver scosso qualcosa dentro di lei”.

Questo alla famiglia Calabresi però non è successo. Quelli che sono stati ritenuti gli assassini e mandanti, non si sono mai pentiti… Ecco voi avete avuto una verità giudiziaria, ma quanto è importante ancora per voi che queste persone paghino col carcere fino in fondo e anche una loro ammissione di colpa e, magari, pentimento, quanto sarebbe importante per voi?

“Per noi, dopo tanti anni, soprattutto il carcere ora non restituisce nulla. Le cose che a noi stavano più a cuore erano: fare giustizia per avere chiarezza. Dati certi, verità. Ma che alla fine  questi qui dicessero sì, no, ci dispiace non ci dispiace, non ci cambia niente francamente. Però noi ci tenevamo che venisse riabilitata la figura di mio padre. Cioè che venisse ripulita la sua immagine. Come era giusto che fosse e che gli venisse restituito l’onore che gli spettava, che si tenesse viva la memoria. Io credo che questo siamo riusciti a farlo. Se pensi che mio padre fino a qualche anno fa era tenuto in un limbo perché era considerato un po’ imbarazzante, oggi è invece una persona che ha ricevuto la medaglia d’oro dal presidente Ciampi alla memoria, un francobollo, una via a Roma intitolata a lui, le lapidi a Milano”.

Tutto però arrivato con terribile ritardo…

“Ma non è che hanno meno valore. Io penso che questi riconoscimenti, seppur tardivi, siano importanti, sono da apprezzare e noi lo facciamo”.

Ma queste istituzioni fanno venire anche rabbia, alla figlia del poliziotto Custra, quando è il momento di aiutarla, lei che ha fatto il liceo classico, gli offrono un lavoro da spazzina, lei dice nel libro che diventa la prima spazzina donna di Napoli…

“Sì, e io questo lo chiamo analfabetismo delle sensibilità, e da parte delle istituzioni sarà certe volte spaventoso.  Hanno avuto più senso delle istituzioni i familiari delle vittime del terrorismo piuttosto che le istituzioni stesse”.

Ma il sacrificio di tuo padre per uno stato che alla fine soffre di queste mancanze, di questo “analfabetismo”, ecco ne valeva la pena? Quando tuo nonno gli offrì quel lavoro e lui lo rifiutò per senso del dovere, ma nei confronti di uno stato così assente?

“Diciamo una cosa chiara, mio padre non è che anelasse a diventare un martire, lui amava la vita, sperava di vincere. Sperava e voleva far bene fino in fondo il suo lavoro. Ma non è che se le istituzioni non sono quelle che vorremmo, allora noi dobbiamo essere vigliacchi o cialtroni. Altrimenti tutto andrebbe a rotoli in Italia. Secondo me la lezione di mio padre è che uno deve tenere fede alla propria idea che ha delle istituzioni. Non è che pensando che se le istituzioni sono mediocri io mi comporto da mediocre.”

Ma più che le istituzioni mediocri, in questo caso sembrano cialtroni certi uomini che ne facevano parte…

“Esatto. Noi in questi anni abbiamo sempre avuto rispetto per la magistratura, rispetto per le sentenze, mia madre ci ha insegnato questo.  Tante volte lo stato è stato carente, ma cosa avremmo dovuto fare noi? Rimettere in discussione le nostre convinzioni? No, noi abbiamo continuato con le nostre idee, altrimenti se lo stato è vile, ritardatario o semplicemente disordinato e burocratico, allora noi dobbiamo adeguarci ad esserlo anche noi? No”.

Luigi Calabresi e Gemma Capra nel giorno del loro matrimonio

Tuo padre eroe per forza. Ma nel libro emerge un’altra figura eroica, tua madre.

“Io ero partito per scrivere un libro su mio padre e quando l’ho riletto ho avuto la sensazione di aver scritto un libro su mia madre. Alla fine si vede che mia madre ha espresso il meglio per trent’anni fino ad oggi di quello che era ‘la lezione’ di mio padre. Lei ha fatto poi di più, ha fatto un grande lavoro di scommessa sulla vita. E’ una cosa bellissima, lei ha detto dobbiamo tutti i giorni vivere con passione non dovete coltivare l’odio, il rancore, la vendetta. Dovete coltivare la memoria e la giustizia. Perché odio e vendetta sono sentimenti che si mangiano la passione, la voglia di vivere. Quindi, ci diceva, vi impediranno nella vita di potere fare cose, di innamorarvi, di farvi una famiglia, di divertirvi, di appassionarvi ad un lavoro, perché sarete sempre presi dalla rabbia. Se, coltivando sentimenti negativi, ogni giorno vi svegliate rabbiosi, i terroristi avranno vinto ogni giorno. Perché significherà che ogni mattina della vostra vita, il gesto dei terroristi l’avrà determinata e condizionata”.

E arriviamo al punto quando tu racconti nel libro che, prima di accettare il lavoro a Repubblica, dove scrive pure Adriano Sofri che è stato condannato per l’assassinio di tuo padre,  chiedi consigli a tua madre. Lei,  nell’esortarti ad accettare, dice che tuo padre non avrebbe voluto che chi ti ha fatto del male possa continuare a condizionare la tua vita. E’ una pagina intensa, che spiega la scelta di Mario Calabresi di lavorare a Repubblica. Eppure, onestamente, appare assurdo che la tua firma, giornalista ormai affermato, si veda ancora accanto a quella di chi è stato condannato come mandante dell’assassinio di tuo padre. Ma non è una cosa strana che accada ancora questo?

“Sì, è una cosa strana. Io penso di averla spiegata con chiarezza la mia decisione. Soprattutto in questo momento, che sono a New York e racconto gli Stati Uniti, seguo la campagna elettorale, ho avuto due figlie che sono nate qui, che sono americane, soprattutto adesso che vedo tutte queste cose che mi piacciono, che penso sono importanti, che mi stanno dando una visione del mondo, ecco vedo tutto questo e penso: e io avrei dovuto rinunciarci per colpa di Adriano Sofri? No. La cosa che mi sta a cuore chiarire è questo. Non è che io per stare a Repubblica mi sia acconciato le mie idee, mi sia nascosto. Tanto che ho scritto un libro, che forse è il primo libro in Italia che dice apertamente quali sono i danni che i terroristi hanno fatto al nostro paese. Non mi sono nascosto, io sto a testa alta, fiero della mia storia e del mio cognome, senza imbarazzi”.

Ha fatto sicuramente bene Mario a continuare la sua formidabile e meritata carriera di giornalista nel più letto quotidiano d’Italia. Semmai spetterebbe ad altri ovviare alla stranezza unicamente italiana e non far apparire più quelle firme insieme sullo stesso giornale.
Bisogna spingere via il rancore per poter andare avanti, per vivere e poter essere felici e non far vincere così chi ci ha fatto del male. Un messaggio nel libro di Calabresi per tutte le famiglie italiane vittime del terrorismo, ma anche un messaggio universale.

Questa intervista è uscita originariamente su Oggi7, l’inserto settimanale del quotidiano “America Oggi”, il 25 novembre 2007

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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