Nel 2002, un manoscritto prezioso di Ulisse Aldrovandi atterrava con me a Washington per un’esposizione alla National Gallery of Art. Questo evento, che includeva la celebre immagine del Girasole, simboleggiava il compimento di un sogno: l’America che incontrava Aldrovandi, quasi quattro secoli dopo. Perché per il naturalista bolognese, l’esplorazione del “Nuovo Mondo” fu un desiderio mai realizzato.
Ulisse Aldrovandi (1522-1605) fu una figura centrale del Rinascimento scientifico, distinguendosi per un approccio empirico e sistematico, lontano dai metodi scolastici tradizionali. La sua vasta curiosità intellettuale lo spingeva a voler documentare l’intero mondo naturale, estendendo la sua visione ben oltre l’Europa, verso le terre appena scoperte del Nuovo Mondo. Dopo una giovinezza turbolenta, che lo vide avventurarsi in terre lontane, si laureò in filosofia e medicina a Bologna, sua città natale. Nel 1561, divenne il “primo lettore” della prima cattedra di scienze naturali, con un programma di studio che abbracciava piante, animali e fossili.
Il suo metodo era profondamente innovativo per l’epoca, basato sull’osservazione diretta. Celebre la sua affermazione: “Non ho mai descritto nulla senza averlo prima visto con i miei occhi e aver esaminato l’anatomia delle sue parti esterne e interne”. Questa dedizione all’esperienza diretta lo spinse a intraprendere numerose escursioni naturalistiche in Italia, come quelle sulle Alpi di Sestola o al Monte Baldo, per raccogliere materiale e osservare direttamente flora, fauna e fenomeni geologici. Con questo metodo induttivo, Aldrovandi raccolse oltre diciottomila esemplari che confluirono nel suo museo naturalistico. Non un semplice “gabinetto delle meraviglie”, ma una vera e propria istituzione scientifica di ricerca, a disposizione degli studenti universitari e dei numerosi visitatori.
Questo approccio spiega il suo profondo interesse per il Nuovo Mondo e la sua inaudita biodiversità. L’afflusso di nuove specie e i resoconti degli esploratori stavano avendo un impatto significativo sulla scienza europea del XVI secolo, stimolando un rinnovato fervore scientifico. Aldrovandi fu affascinato dalle novità provenienti da queste terre e desiderava esplorarle direttamente, ma i suoi progetti non furono mai attuati. Il primo risaliva al 1559, quando aveva 37 anni ed esprimeva soprattutto l’auspicio che le spedizioni esplorative fossero fatte da naturalisti di professione, competenti per studi ed esperienze maturate. Il secondo, elaborato dieci anni dopo, era invece un vero e proprio programma articolato che si proponeva di organizzare in prima persona, per quanto da lui stesso ritenuta “una faticosa impresa”. Occorreva, infatti, “armare un buon naviglio” con tutte le attrezzature necessarie, costituire un nutrito gruppo di lavoro, costituito da molti “scrittori, pittori e altre persone erudite” che avrebbero avuto il compito di esplorare vari luoghi, descrivere e dipingere ogni “cosa rara e pellegrina” per poi portarla via e conservarla fino al rientro in Europa. Ma le spedizioni transoceaniche erano imprese estremamente rischiose e complesse, richiedevano finanziamenti considerevoli, appoggi politici e, appunto, una complessa organizzazione. Aldrovandi comprese che le sfide erano insormontabili per le sue risorse e i suoi scopi, e le sue aspirazioni di viaggi lontani non si concretizzarono mai.
Nonostante l’impossibilità di viaggiare di persona, Aldrovandi adottò strategie innovative per superare le limitazioni geografiche. Sviluppò una vasta rete di corrispondenti che si estendeva in tutta Europa e raggiungeva luoghi remoti come Lima in Perù o Goa in India. Il suo epistolario, composto da circa 2000 lettere con 320 corrispondenti, gli permise di raccogliere esemplari, descrizioni e informazioni da ogni angolo del mondo conosciuto. Questa dipendenza da una rete globale per costruire una comprensione completa della biodiversità, anziché affidarsi solo ai viaggi personali, rappresenta un’innovazione metodologica significativa per l’epoca, rendendolo un precursore della collaborazione scientifica moderna.
Le “collezioni Americane” di Aldrovandi sono la testimonianza tangibile del suo desiderio di abbracciare il Nuovo Mondo. Non potendo recarsi in America, Aldrovandi fece in modo che l’America venisse da lui. Nel suo celebre Museo a Bologna si trovavano numerosi reperti di origine americana, frutto di un’instancabile attività di acquisizione e scambio. Tra questi, esemplari animali sconosciuti in Europa, come il tacchino, pelli e scheletri di rettili, anfibi, tapiri, armadilli e pappagalli dai colori straordinari. Non mancavano esemplari vegetali, come mais, tabacco, peperoncino e pomodoro, testimonianza della ricchezza botanica del nuovo continente. Particolarmente preziosi erano i manufatti indigeni, inclusi i mosaici di piume messicani, considerati dallo stesso Aldrovandi “l’oggetto più prezioso dell’intero museo”. Lo studioso non si limitava a raccogliere, ma descriveva, classificava e, spesso a proprie spese, faceva dipingere o intagliare questi materiali per i suoi volumi e xilografie.
Il mancato viaggio di Aldrovandi in America non ne diminuì affatto l’impatto sulla conoscenza europea del Nuovo Mondo. Al contrario, il suo approccio basato sull’osservazione indiretta e sulla compilazione enciclopedica dimostra come la scienza rinascimentale potesse progredire anche senza esplorazioni dirette. Il suo museo era un laboratorio vivente dove gli oggetti venivano studiati, catalogati e interpretati, permettendogli di “viaggiare” attraverso le meraviglie portate da altri. Le sue meticolose descrizioni e accurate illustrazioni hanno plasmato l’immaginario collettivo dell’epoca, contribuendo significativamente alla comprensione e alla rappresentazione del Nuovo Mondo. Sebbene non abbia mai solcato l’Atlantico, Aldrovandi ha lasciato un’eredità duratura, dimostrando come la curiosità scientifica e l’ingegno possano superare i confini geografici, portando il mondo intero nel cuore di una singola città: Bologna. E da Bologna, la sua opera, dopo quattro secoli, ha finalmente raggiunto l’America.