“Scriveva di mattina, quando noi andavamo a scuola. Si alzava alle cinque e restava inaccessibile fino al pomeriggio. Lavorava in una specie di trance dietro la porta chiusa con il cartellino Do not disturb“. Era mio padre e si chiamava Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903 e morto a Losanna a 86 anni. Giornalista e autore super prolifico – ha scritto centinaia fra romanzi e racconti tradotti in 40 Paesi e 50 lingue, tiratura superiore a 700 milioni di copie. Due volte marito, quattro volte genitore, nell’ultimo tratto affiancato da una compagna che somigliava alla signora Maigret. Affamato di sesso. Raccontava d’essere andato a letto con diecimila donne, la maggior parte a pagamento. E le altre erano perlopiù di bassa estrazione sociale: domestiche, cantanti, spogliarelliste, ballerine, cameriere. Nel mazzo la non ancora celebre Josephine Baker e la giovanissima Nadia Cassini. “Non si tratta di un vizio, non sono un maniaco: ho bisogno di comunicare e fare sesso per me è come respirare”, ripeteva.

Chi può tentare di spiegare quest’uomo complesso se non un figlio. Laureato in economia ad Harvard e manager cinematografico, John Simenon – nato dall’unione con la seconda moglie Denyse Ouimet – amministra l’opera monumentale di Georges. E’ alto, magro, ironico, gentile. Ha la pipa in bocca nella foto bianco e nero da bambino, è stato testimone oculare di una vita speciale. E’ venuto a Bologna a presentare la mostra “Otto viaggi di un romanziere”: duemila pezzi per definire un enigma, esposti nei sotterranei del Cinema Modernissimo fino all’8 febbraio 2026. Percorso ricostruito da Gian Luca Farinelli, direttore della cineteca, e da lui, il custode degli straordinari cimeli: messi in fila sono gli indizi di un’inchiesta psicologica.

Primo tassello è l’industrializzazione di Liegi dove Simenon era cresciuto nel primo Novecento. L’albero genealogico, i ritratti dei genitori, la foto di classe alla scuola cattolica. Poi la carta d’identità con l’alias letterario, la tessera di giornalista, il biglietto da visita a nome Georges Sim. Una copia dell’esordio: Au Pont des Arches, volumetto datato 1921. Le immagini della prima moglie Régine, detta Tigy, che gli resterà accanto per 27 anni. I filmati della Ville Lumiére, la Revue Nègre, i cinema, i teatri, il cabaret. Facce e scorci alla Jean Vigo fissati dalla barca Ostrogoth – in vetrina la Rolleiflex con l’astuccio di cuoio, e accanto la piccola Leica. Le pagine dei reportage per France Soir: Trotsky in Turchia, l’Unione Sovietica, l’estate sulla spiaggia di Odessa. Gli album dei viaggi con le foto incollate da Tigy: il Mediterraneo, Malta, Sanremo, le feste. E l’Africa, l’Ecuador, il giro del mondo con la rotta segnata in rosso sulle mappe. Fino al matrimonio con Denyse nel ’50, i bambini, le pipe, i calendari con i tempi di lavoro.

“Mio padre era in perpetuo movimento”, dice John. Tanto irrequieto da cambiare 46 abitazioni, gli indirizzi catalogati con precisione. Mimetizzato dietro 33 pseudonimi. Grande viaggiatore lungo i canali della Senna o sull’oceano verso Tahiti. Passato dal Belgio dell’Expo universale alla Parigi capitale degli artisti, quindi il Canada, New York, l’America percorsa su una Chevrolet, la fattoria nel Connecticut, il capolinea della casa rosa in Svizzera. Però la chiave è quella stanza vietata agli intrusi: lì dentro creava. Se il commissario Jules Maigret, poliziotto al 36 del Quai des Orfévres, sosteneva che il suo metodo d’indagine era non averne, l’opposto vale per l’artefice. Simenon ragionava con la cartina di Parigi sulla scrivania e teneva buste gialle che riempiva di appunti, note sui personaggi, disegni. Accumulava gli elementi nella settimana preparatoria, quindi si metteva a scrivere a velocità supersonica: finiva in 15 giorni con correzioni minime, ad asciugare. “Pensava che i romanzi gialli fossero cose minori, preliminari alla grande letteratura venuta più tardi. Diceva che Maigret lo prendeva per mano e così elaborava le sue storie più facilmente”.
Il ricordo dei luoghi evoca rapporti familiari non facili. “Abbiamo litigato spesso. Ma era presente e protettivo, ci offriva uno spazio sicuro trasferendo le angosce nei libri. Diverso da Maigret che era stabile e rassicurante, quando si sentiva chiuso in un posto o in un’etichetta doveva partire: una necessità interiore”. Le precauzioni non sono bastate a tenere il mondo fuori. Men che meno la noirceur, il lato oscuro e doloroso. Il suicidio a 25 anni con un colpo di pistola della figlia Marie-Jo. Il fratello Christian collaborazionista, riparato su suo consiglio nella Legione straniera e ucciso nel ’47. La madre Henriette, che lo riteneva responsabile della tragedia, morta senza perdonarlo. “La sofferenza è parte della sua opera”. L’ha riversata nei romanzi duri finché ha chiuso con la scrittura. Il 7 febbraio 1973 Simenon annuncia il ritiro e modifica il passaporto sostituendo a romanziere la dicitura pensionato. Che diventerà poi: senza professione. Un tumore al cervello l’aveva inseguito a lungo, l’operazione solo rinviato il verdetto. John rivela: “Avevo 40 anni, ho aperto La neve era sporca. Il protagonista Holst dice: il mestiere di uomo è difficile. Questa frase l’avevo sentita centinaia di volte da piccolo”.

Capitolo a parte è l’amore per l’Italia, ricambiato dai lettori fedeli. C’è la copertina di Nicoletta e Dina, primo romanzo pubblicato dal Corriere della Sera nel ’29. L’incontro con Mondadori, la Darsena e i Navigli a Milano simili ai canali francesi. Una lettera dell’amico Fellini: fu Simenon, presidente di giuria al Festival di Cannes nel ’60, a imporre la Palma d’oro a La dolce vita malgrado il dissenso del pubblico. Il regista dal canto suo lo convinse a passare all’Adelphi di Calasso, tuttora suo editore. Mentre la voce di Luigi Tenco canta Un giorno dopo l’altro, appare una foto di gruppo: primo a sinistra è Gino Cervi, assieme a lui e agli altri Maigret dei film. Il commissario è l’altro da sé che cerca la verità bussando a un’affittacamere, alla portinaia o alla porta dello squallido alberghetto dove un borghese benestante mantiene l’amante. Vita reale in mezzo alle miserie quotidiane. Inutile giudicare, meglio tentare di capire. Per scoprire magari che l’assassino non è il vero colpevole.