“Non ho cambiato mestiere, lo faccio in modo diverso”. Sul palco della Versiliana è una presenza dominante. Carmen Lasorella ha conservato intatto il carisma, l’autorevolezza, la voce che il pubblico televisivo ha imparato a conoscere e riconoscere. All’epoca esistevano due primedonne simbolo dell’informazione sul piccolo schermo: lei e Lilli Gruber, come dire Coppi e Bartali. “Due modi di essere e due Italie diverse. Ci siamo sempre serenamente ignorate”, spiega Lasorella. Era il 1979 quando assunse la conduzione del Tg3, per arrivare cinque anni dopo al Tg2. Ma la svolta della carriera fu il 1987, all’epoca del conflitto Iran-Iraq: divenne la prima giornalista Rai inviata di guerra. Lei peraltro la descrive come una fortunata combinazione, frutto del caso. “Eravamo in estate, i cronisti quasi tutti in ferie. Qualcuno doveva seguire l’operazione di sminamento nelle acque del Golfo Persico e mandarono me. Imbarcata su una nave della Marina”. Fu il primo atto di una serie di reportage nel Corno d’Africa che hanno fatto scuoia: Etiopia, Gibuti, l’intervista al dittatore somalo fuggiasco Siad Barre. Quindi il Medio e l’Estremo Oriente. Fronti caldi, teatri di crisi. I suoi servizi le cucirono addosso una fama di competenza e coraggio, finché si schiantò sulla tragedia che segna un’esistenza.
L’evento cruciale avvenne il 9 febbraio del 1995: l’agguato sanguinoso a Mogadiscio, opera di un gruppo di mercenari al soldo dei signori della guerra. L’inchiesta ipotizzò il contesto di uno scontro per il controllo delle banane, ma la vicenda non fu mai chiarita. Di certo morirono l’operatore Marcello Palmisano e dieci uomini di scorta al Land Cruiser; Lasorella, invece, salvò la pelle per un soffio. Rimase ferita, fu sequestrata per ore e finalmente rilasciata. Al ritorno i suoi compiti a Roma cambiarono, riportandola dietro la scrivania. Quindi il trasloco a Berlino come corrispondente dal 1999 al 2003, seguito dal dirottamento alla direzione generale di San Marino Rtv, emittente partecipata per metà dall’Ente di Stato. Non era la sua scarpa. E non lo era neppure la presidenza di RaiNet, scatola vuota chiusa dopo un anno appena com’era prevedibile. Troppo per una front woman qual è, in fondo, ancora oggi, abituata a combattere: nel 2017 vince la causa per dequalificazione professionale e un capitolo fondamentale si chiude per sempre.
“Arriva il momento in cui devi cambiare per poter continuare a vivere”, dice la protagonista del suo libro pubblicato da Marietti. Si intitola Vera. E gli schiavi del terzo millennio: un romanzo a più strati che oscilla tra narrativa pura, inchiesta, thriller e diario di viaggio. Scritto con l’intento di evitare il taglio giornalistico, per costruire un’opera di più ampio respiro su fatti di stretta attualità — il traffico di migranti — pur se immaginari. Per capire, spiegare, pensare. Il nome Vera è una scelta precisa: il lessico trasmette un carattere. La parola viene dal latino e significa “colei che afferma la verità”. Lo stesso sostantivo, nella grammatica tedesca, si scrive “war” e si traduce “guerra”, ma pure “difesa, protezione”. E l’etimo russo porta a “fede”, l’accezione più comune per definire quel che i popoli anglosassoni definiscono “the eternal ring”, cioè “l’anello nuziale”. Un anello che il personaggio chiave sta per sfilarsi dal dito.

Chi è Vera?
“Le ho dato questo nome perché ci stiamo allontanando sempre più dalla verità delle cose. La cronaca è spesso superficiale e l’accelerazione digitale rende ancor più labile la distinzione tra virtuale e reale. Quel tal episodio è accaduto o semplicemente ce lo raccontano così? Forse è stato creato da una informazione deformata. E allora è necessario porsi delle domande, in assenza di risposte. Vera è curiosa, non si accontenta della versione ufficiale e si mette a investigare”.
Fa la giornalista?
“No, non è il mio riflesso. Però è una attivista che ragiona con la testa di un reporter. Vera è stata una paladina dei diritti umani, una pacifista che è scesa a manifestare nelle piazze di mezzo mondo, beccandosi qualche manganellata. Adesso è stanca, fiaccata nello spirito, delusa. Sente che un pezzo di quella vita così intensa e assorbente è finito, però si rimette in gioco: va a dirigere un consorzio che si occupa di migranti, costola dell’ONU. Scoprirà a sue spese che la struttura copre un’attività criminale. Così decide di tirar fuori l’elmetto dall’armadio e tornare in trincea”.
Il traffico degli schiavi è il tema centrale: un problema insolubile?
“Queste persone non fanno una scelta libera lasciando la propria terra. Sono dei forzati stritolati da speculatori assassini, sballottati tra il rischio di morire e la certezza dello sfruttamento. Pagando attraversano il Mediterraneo e i continenti, i confini delle montagne africane, il muro tra Messico e Stati Uniti: sono merce, carne in offerta, uomini e donne senza identità che trovano sull’altra sponda chi li aspetta per trarne profitto. Eppure vengono dipinti come nemici da respingere”.
Perché ha voluto raccontarli?
“Per provare a superare la superficialità di giudizio a cui siamo indotti dai mass media. Il nostro è un tempo distratto: ho voluto offrire un’occasione di riflessione al lettore. Credo che oggi ci sia una ragione sociale nella scrittura”.
Vera subisce un raffinato attacco informatico che riesce a disinnescare: chiunque può diventare vittima di un deep fake?
“L’intelligenza artificiale è una meraviglia spalancata sul futuro e contemporaneamente una grande paura. Nessuno sa dire fino a che punto le macchine diventeranno pensanti e come condizioneranno le nostre vite. Forse prenderanno il sopravvento, comunque conquisteranno uno spazio sempre maggiore. La mia risposta è: difendendo i diritti dei deboli difenderemo anche i nostri. Occupiamoci dell’umanità, è il fattore che nessun microprocessore possiede”.
Le nuove generazioni sono fatte da nativi digitali: sapranno trovare le contromisure?
“È la mia speranza. A loro indico la ricetta del buon giornalismo di una volta: andare a vedere i fatti da vicino, verificarli, cercare gli elementi che non passano nella comunicazione”.
Che cosa pensa dei telegiornali di oggi?
“Faccio fatica a seguire i tg della Rai. La mia azienda era lottizzata, i direttori facevano gli equilibristi però avevano il senso del servizio pubblico. E c’era spazio per chi era bravo”.