Zucchero, come sta? “Benone, è un periodo buono, ne ho passate di peggio. Sono più sereno, ho una fattoria con i miei animali, gli amici e la famiglia. Mio figlio si è laureato e non ci avrei mai scommesso”, scherza il più grande bluesman italiano, quando lo raggiungiamo via Zoom per parlare delle prossime tappe americane del tour che inizierà ad aprile.
Una felicità semplice che non ti aspetti da un artista che nella sua carriera ha venduto più di sessanta milioni di dischi e calcato i più grandi palchi del mondo. Come il Theater del Madison Square Garden di New York, dove tornerà il 9 maggio. Seconda tappa americana del giro, dopo l’apertura a Fort Lauderdale due giorni prima in Florida. Seguiranno Boston e Chicago e nel mezzo una parentesi in Canada, a Montreal e Toronto. “Overdose D’Amore World Tour 2024” è un tributo a quarant’anni di successi. In ogni città, almeno due ore di concerto, per regalare al pubblico i brani che l’hanno fatto entrare nell’Olimpo dei mostri sacri della musica. “Mi sento in forma, continuo a girare il mondo e ho anche voglia di scrivere”, racconta Adelmo Fornaciari, al secolo Zucchero. Se il 2024 sarà dedicato solo ai live, l’anno prossimo potremo ascoltare il suo nuovo album. “Mi piacerebbe iniziare a comporre verso settembre od ottobre così da poterlo fare uscire nel 2025”, ci dice ancora l’artista emiliano in questa intervista in cui parla del suo rapporto profondo e viscerale con l’America, ma affronta anche temi italiani. Dalla qualità della musica a Sanremo, alla libertà di espressione degli artisti, fino al successo internazionale dei Måneskin.
l tour 2024 è ricco di date. Non si è risparmiato.
“Sì, sarà molto fitto. Più o meno, le mie esibizioni saranno simili in ogni città. Partiremo dalla Royal Albert Hall di Londra, poi suoneremo in Scandinavia e in giro per l’Europa. Ci sarà l’Italia con cinque date, compreso San Siro, poi gli appuntamenti nordamericani. Oltre alle canzoni, sarà la band a fare la differenza: musicisti eccezionali, che hanno suonato con artisti come Prince, Aretha Franklin, Jethro Tull. Con alcuni di loro, suoniamo insieme da sempre, conoscono il mio repertorio a memoria e questo mi permette di avere molta libertà sul palco, di divertirmi, di cambiare la scaletta anche all’ultimo momento, a seconda di come mi sento. Suonerò i miei brani più conosciuti e qualcuno di quelli dell’ultimo album. Un excursus molto ampio che celebra questi quarant’anni di musica”.
A New York, il 9 maggio, suonerà nel Teatro del MSG. Cosa rappresenta per lei questo ritorno?
“Tutti vorrebbero suonare al Madison ogni volta che arrivano in questa città, ci sono davvero passati i più grandi. Non è sempre possibile; a volte è difficile incastrare le date”.
Per celebrare i quarant’anni di attività, gli Stati Uniti non potevano mancare. Questo Paese ha avuto una forte influenza su di lei. Ci spiega come è riuscito a legare la tradizione americana con il belcanto italiano?
“È stato naturale. Sin da piccolo – avrò avuto nove anni quando ho iniziato a strimpellare una chitarra rudimentale – quando arrivavano in Italia i primi quarantacinque giri di rhythm and blues, di soul, di funky, non so per quale motivo ma fui impressionato dal ritmo e dalla sensualità della musica afroamericana. Ero però figlio della terra emiliana, in mezzo alla tradizione melodica e operistica, tra Verdi e Pavarotti; così quando ho iniziato a comporre la mia musica, queste due anime si sono manifestate: il ritmo afroamericano con la melodia mediterranea. Ha fatto la differenza. Per gli americani e gli anglosassoni non ero il tipico cantante melodico, ma si ritrovavano in queste loro sonorità; mentre per gli italiani rappresentavo un nuovo modo di fare la nostra musica”.
A questo proposito ci racconta dell’incontro magico che ha avuto con Miles Davis? La leggenda vuole che, mentre si trovava a Roma, il re del jazz sentì la sua canzone e se ne innamorò.
“Registrammo insieme Dune Mosse; mi disse che quello che l’aveva colpito di me era il fatto che a un certo punto della canzone avessi deciso di aprire la melodia. Gli americani invece avrebbero continuato con lo stesso groove”.
Qual è la città americana a cui è più legato?
“New Orleans, la considero la mia seconda città. Quando ci arrivai per la prima volta, atterrando dall’aereo vidi un paesaggio che mi ricordava la bassa emiliana, le campagne intorno al Po, la nebbiolina. Era come esserci già stato. Restai per un mese, dovevamo registrare un album, era tutto così familiare. Ricordo ancora che una volta al ristorante, mi sbalordì leggere sul menù il pesce gatto fritto; io pensavo si mangiasse solo in Emilia intorno al Po. C’era poi il folklore, il capitolo storico delle plantation e degli schiavi da cui era nata la musica che amo. Cerco di andarci almeno ogni due anni”.
Si aspettava che l’America celebrasse in questo modo i Måneskin?
“Sono rimasto stupito musicalmente, perché non hanno portato nulla di nuovo rispetto a quello che abbiamo vissuto negli anni ‘70, ad esempio con i Led Zeppelin o i Rolling Stones. Lo stile è quello, non hanno inventato un nuovo rock. Sono però molto contento per loro per il successo ottenuto. Hanno portato freschezza, hanno riempito un vuoto; mancava da un po’ di tempo qualcuno che facesse rock. Hanno saputo mettere insieme un look molto provocatorio. I social e il loro grande seguito, gli hanno permesso di arrivare in tutto il mondo; prima questa possibilità non esisteva. Ora, i Måneskin, come tutti gli artisti, devono capire come proseguire. Come diceva Pavarotti, il successo poi bisogna giustificarlo”.
Se iniziasse ora la sua carriera, guarderebbe ancora all’America per trovare ispirazione? Oggi che è così diversa e polarizzata da quando l’aveva conosciuta lei.
“Non posso giudicare perché io non vivo qui, però ho molti amici, famosi e non, che ogni tanto mi raccontano di quanto sia cambiata. Alcuni stanno riflettendo sulla possibilità di tornare in Europa. Se pensiamo alla musica, quello che arriva non offre molti stimoli; a livello politico, ho le mie idee, ma sarebbe troppo lunga. È un momento difficile in tutto il mondo, non solo per gli Stati Uniti. C’è una paura diffusa che si stia virando verso l’estremismo, in cui anche la cultura e la libertà in senso lato possano avere dei problemi, essere compromesse”.
Sta parlando dell’Italia? Con Sanremo si è parlato molto di libertà di espressione negata agli artisti. Cosa ne pensa?
“Qualcuno ha cercato di dire la sua e per questo è stato molto criticato. Fuoriluogo, se un artista non ha neanche più la possibilità di dire quello che pensa! E allora De Andrè e Guccini che hanno sempre detto la loro in modo molto più critico e pesante? Sarebbero finiti in galera forse. Avrei avuto problemi anche io”.
Rimaniamo su Sanremo. Un’altra polemica, quella sulla qualità delle canzoni. Qual è la sua opinione?
“Il problema non nasce oggi. La musica è l’ultima delle loro preoccupazioni. A Sanremo importa fare audience, accaparrarsi gli sponsor. Non ha niente a che vedere con l’arte né con la cultura. Non credo sia lo specchio della cultura italiana; nel nostro Paese ci sono valori e prodotti di maggiore spessore. Quelli non mi rappresentano”.
Beyoncé ha appena pubblicato un album country. Dalla moda alla musica questo genere nel 2024 sembra stia avendo una rinascita. Lei non ci ha mai pensato? Noi da sempre sogniamo un duetto tra lei e Willie Nelson.
“Mi piace molto, ci sono effettivamente artisti che hanno avuto una svolta country, come Ray Charles. Willie Nelson è uno dei miei idoli. Ho avuto la fortuna di conoscerlo perché abbiamo lo stesso produttore. È una persona simpatica, intellettualmente molto interessante. E poi ha scritto cose talmente belle. Una collaborazione con lui? Mi piacerebbe. Chissà!”