Un uomo solo e un bambino. A terra immobili mentre si alza la musica. L’atmosfera è scura e scuri sono i ballerini che entrano dal lato opposto. Coppie che danzano, ognuno il proprio giro, una umanità allo sbando, o pensieri confusi. L’ultimo lavoro di Alexei Ratmansky, “Solitude”, che ha debuttato al New York City Ballet è un capolavoro. Il coreografo russo ucraino al lavoro su un tema drammatico, che profondamente lo colpisce, la guerra in Ucraina, è riuscito a unire la sapienza della creazione dei passi ad un senso profondo, intenso che arriva al cuore dello spettatore. La musica è quella bellissima di Gustav Mahler, il terzo movimento, Marcia funebre, dalla Prima Sinfonia e il quarto movimento, Adagietto, dalla Quinta, i ballerini quelli tecnicamente perfetti del NYCB, ma questo non sarebbe sufficiente alla creazione di uno spettacolo memorabile se non ci fosse il genio di una coreografia significante.

Ratmansky spiega che la sua famiglia è in Ucraina che tutte le sere guarda le news e che un giorno ha visto un padre che è rimasto ore accanto al figlio di tredici anni, ucciso da una incursione aerea russa alla fermata dell’autobus di Kharkiv, tenendogli la mano. Quella scena è rimasta indelebile nella sua mente di uomo e di padre finché non ci ha costruito sopra un balletto. Lo ha dedicato “ai bambini ucraini vittime della guerra” e inizia con Joseph Gordon in pantaloni e maglia a collo alto in ginocchio accanto ad un allievo della scuola dell’American Ballet sdraiato a terra. I danzatori entrano e a momenti formano gruppi che ricordano lo strazio dei corpi nel giudizio universale di Michelangelo, in altri le ballerine, sollevate con una gamba al cielo e l’altra in passé e quindi girate in modo che la gamba sia in avanti, evocano dei fucili spianati, così come i ballerini, in equilibrio su una gamba con l’altra piegata e tenuta stretta dalle mani, sembrano reduci amputati. E’ una umanità impaurita, affranta, che si ripara, fugge, mentre in un angolo rimangono immobili l’uomo solo e il bambino. Poi l’uomo si solleva e sull’Adagietto danza il suo dolore: il suo assolo è intenso, affranto, un lungo lamento silenzioso. Due donne, Sara Mearns, sorta di angelo in nero, e Mira Nadon lo circondano mentre il bambino viene sollevato e passato dalle braccia dei ballerini sullo sfondo. Una improvvisa luce rischiara la scena ma è una bomba e il bimbo torna a terra, il padre si inginocchia accanto a lui.

Solitude è il primo balletto creato da Ratmansky da quando è diventato la scorsa estate artist in residence al NYCB, ne aveva già coreografati 6 come guest artist ed erano perlopiù creazioni astratte. Dopo l’inizio della guerra aveva già creato un balletto per l’Ucraina, “Wartime elegy” eseguito dai ballerini della compagnia di Seattle, su musica folk e di un compositore ucraino profugo, Valentin Silvestrov. Alla fine della prima Ratmansky è entrato in scena sventolando la bandiera gialla e blu. Bandiera che, proiettata sullo sfondo ha concluso anche il suo “Quadri di una esposizione” del 2014 nell’allestimento della scorsa stagione al NYCB. La guerra ha trasformato Ratmansky: “la situazione attuale ha portato l’arte a convergere con la politica in modo naturale, una esperienza che non avevo mai fatto prima” ha detto.
Nato a Leningrado nel 1968 da padre ucraino ebreo e madre russa, è cresciuto a Kiev, dove vive tuttora la sua famiglia. Ha studiato al Bolshoi a Mosca, dopo il diploma è tornato a Kiev e ballato nella compagnia di stato dove ha incontrato la sua attuale moglie, la ballerina ucraina Tatiana Kilivniuk. Con la fine dell’Unione Sovietica ha iniziato a lavorare in occidente mantenendo i rapporti con i paesi d’origine, è stato direttore del Bolshoi e proprio nel teatro moscovita si trovava il 24 febbraio quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina. Insieme al suo team ha immediatamente lasciato il paese. “Per continuare a vivere devo silenziare la parte russa di me” ha spiegato, aggiungendo che non tornerà in Russia finché Putin rimarrà al potere. Intanto ha iniziato la sua collaborazione con il NYCB, compagnia fondata da Balanchine, coreografo molto amato da Ratmansky.

E non è un caso che il lavoro scelto per concludere la serata, che si era aperta con una coreografia di Jerome Robbins “Opus 19/The Dreamer” (1979), sia “Sinfonia in tre movimenti” (1972) di Balanchine su musica di Stravinsky. Molto più corale e movimentato rispetto a “Solitude” è però anche questo un lavoro sulla guerra e inizia con 16 ballerine in diagonale pronte alla battaglia. “Metti in scena 16 donne ed è tutti, è il mondo, metti 16 uomini e non è nessuno” aveva detto Balanchine nel 1959. Introduce poi tre coppie ognuna con la sua danza con le ballerine vestite di rosa e 5 coppie in nero: insieme creano geometrie costantemente diverse. Stravinsky aveva composto la sinfonia pensando alla seconda guerra mondiale, Balanchine pensava a quella in Vietnam, Ratmansky a quella in Ucraina. La storia si ripete e gli uomini non imparano nulla.