Il balletto con le sue punte, pirouette e grand jeté, interpretato dalla sensibilità contemporanea di tre giovani coreografi. La serata intitolata New Combinations al New York City Ballet mostra come la compagnia creata da George Balanchine e portata avanti da Jerome Robbins e Peter Martins, continua nel suo percorso di innovazione della classica antica tecnica del balletto. Clou della serata il Concerto per due pianoforti creato da Tiler Peck al suo debutto come coreografa al NYCB. Balletto moderno ma insieme fluido armonico morbido, cinque solisti e sette coppie per riempire la scena di combinazioni originali e insieme classiche.
Peck è una prima ballerina della compagnia, in cui lavora da quasi vent’anni, e quando le è stata offerta l’opportunità di creare un balletto per i suoi colleghi non ha esitato. Ha pensato ai suoi grandi ispiratori, Balanchine prima di tutto, e ai suoi balletti su musica pianistica, e si è diretta verso i concerti per piano scegliendo infine quello di Francis Poulenc per due pianoforti. La musica le ha dato il via, i ballerini da lei scelti hanno contribuito al resto. Con la loro tecnica perfetta, ma ognuno con le sue peculiarità hanno influito allo sviluppo della coreografia, ha raccontato la stessa Peck. Così sono nati gli assoli potenti di Roman Mejia e i sofisticati pas de deux di Mira Nadon e Chun Wai Chan, e i vivaci giochi delle danzatrici India Bradley e Emma Von Enck.

“Di recente si è diffusa l’idea che per entusiasmare ed essere nuovi la coreografia deve essere super contemporanea ma io non sono d’accordo – ha spiegato – c’è un modo per usare la forma classica in modo interessante. Sono questi i lavori che ci spingono a migliorare e quelli che io amo danzare.”
È l’eredità del New York City Ballet. Peck ha evidenziato le linee classiche, leggere con una tecnica veloce, pulitissima, molto allungata, assolutamente contemporanea. Diviso in tre movimenti il suo Concerto per due pianoforti è insieme drammatico, sognatore, vivace, ma sempre leggero, come lo chiffon dei costumi di Zac Posen, e le luci di Brandon Stirling Baker.

Lo stesso non si può dire del brano che ha aperto la serata, La rotunda di Justin Peck (nessuna parentela). Creato nel 2020 su musica originale di Nico Muhli, è spezzato, contratto, ripetitivo, ad un passo en avant segue immediatamente uno en arrière, ad una estensione una contrazione. Justin Peck (autore delle splendide coreografie di West Side Story di Steven Spielberg) voleva mostrare i ballerini nella loro realtà quotidiana come stessero provando o riscaldandosi in sala prove, li ha vestiti di calzamaglie e li ha fatti ballare come in un esercizio continuo, una sperimentazione senza fine. Ma il risultato non trascina, non coinvolge, lascia un senso di attesa come se la danza vera dovesse ancora iniziare.

La danza vera c’è nell’ultimo pezzo della serata, Odesa, di Alexei Ratmansky. Creato nel 2017 (con il titolo Odessa alla russa cambiato in questa edizione in Odesa alla ucraina) il balletto è evocativo di un luogo e un’epoca, seppure recente, ormai molto remota. Ratmansky ha lasciato definitivamente la Russia dopo l’invasione e dopo aver trascorso 15 anni con l’American Ballet Theatre è da questa estate artist in residence al NYCB. Ispirato al racconto di Isaac Babel della vita in epoca sovietica nella città del Mar Nero, il balletto è stato creato sulla musica di Leonid Desyatnikov Sketches to Sunset e passa da momenti struggenti per violino solo ad altri di grande gioia espressi da un tango per tutta l’orchestra.
Sei solisti raccontano una storia di amore e abbandono sempre attuale. Megan Fairchild respinge il suo corteggiatore Daniel Ulbricht che la insegue persistente, Indiana Woodward accanto a Anthony Huxley, e Unity Phelan con Adrian Danchig Waring danzano invece i loro incontri d’amore. Il corpo di ballo fa eco nei momenti di tango appassionato e in quelli di lotta. Amori che un grande coreografo come Ratmansky riesce a raccontare in modo contemporaneo e avvincente.
Fino al 3 marzo al David H. Koch Theater