Entra in scena e cammina come a sfidare l’universo, mappa la scena in circolo e guarda il pubblico, torso nudo, potente, larghi pantaloni corti come una veste antica. Poi corre, ma con piedi e mani, poi si solleva. E con lui si sollevano tutti, i danzatori di Hervé Koubi, il coreografo franco algerino che al Joyce Theatre ha portato il suo ultimo lavoro Sol Invictus, il sole invincibile, il sole che, nella sua visione, abbiamo dentro.

Il sole che a loro permette di volare, con capriole, torsioni, grand jeté en avant, en tournant, di scivolare, di capovolgersi in giri interminabili sulla testa, su una mano, di sfidare in ogni modo la gravità. I danzatori sono potenti, quasi tutti uomini, sono alti, bassi, con la barba lunga o i capelli rasta, c’è persino un danzatore con una sola gamba: entra in scena vistosamente con le stampelle, poi si muove in combinazioni di passi inimmaginabili. Sono danzatori di strada, hanno tecniche che vanno dall’hip hop al capoeira, hanno imparato nelle Amazzoni o in Siberia o su You tube, e vengono da tutto il mondo, Brasile, Stati Uniti, Italia (Francesca Bazzucchi) Francia, Svizzera, Russia, Marocco, soprattutto Algeria. Perché Koubi è algerino di origine, e lo ha scoperto a 25 anni.
I genitori, ebrei algerini, hanno nascosto la loro provenienza al figlio per permettergli una maggiore integrazione in Francia. Koubi ha studiato danza classica da Rossella Hightower a Cannes ma quando ha scoperto le sue origini ha deciso di scoprire l’Algeria e le sue tradizioni. E lì ha trovato i suoi danzatori, 14 giovani che non avevano mai frequentato una scuola di danza, perché non ce ne sono, autodidatti con tanta voglia di esprimere il loro sole. È nata così nel 2010 la compagnia Hervé Koubi, con sede a Calais, che ha portato in giro per il mondo gli spettacoli What the Day Owes to The Night (dal romanzo dello scrittore algerino Yasmina Khadra), The Barbarian Nights, Boys Don’t Cry e Odyssey.

In Sol Invictus i 15 danzatori danzano insieme ma soli, interconnessi ma autonomi; per la prima volta nella compagnia ci sono tre donne, ma anche loro hanno la loro danza personale, potente. “È uno spettacolo molto politico – ha spiegato Koubi – perché se possiamo danzare insieme possiamo vivere insieme.” E ha elaborato: “Abbiamo radici comuni molto più antiche delle nazioni, i confini sono stati disegnati in certi momenti della storia, ma non vogliamo leggere quella storia, siamo tutti un po’ Celti, un po’ Romani, un po’ Cristiani, un po’ Ebrei, un po’ Arabi. Una storia mediterranea che è legata a tutte le altre storie del mondo. Quello che io voglio creare è un’eco della nostra storia comune.“
Sol Invictus, il culto del Dio Sole per gli antichi romani, viene simboleggiato da un grande tessuto d’oro nel quale i danzatori si avvolgono o su cui danzano mentre vibra la musica del compositore belga Maxime Bodson e dello svedese Mikael Karlsson, con inserti da The Four Sections di Steve Reich e dal secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven. Lo spettacolo è potente, con momenti mozzafiato, il pubblico che non riusciva a trattenere gli applausi dopo sequenze spettacolari, ma sarebbe stato più efficace se fosse stato più breve perché ci sono ripetizioni che appesantiscono l’insieme. Ma di certo vale la pena di andare e applaudirli. Alla prima c’è stata una standing ovation.
Sol Invictus, al Joyce Theatre fino al 28 gennaio, arriverà in Italia in aprile e sarà il 18 a Vicenza e il 22 a Pordenone.