Nel cinema, le madri sono spesso ritratte come figure altruiste e amorevoli, un’immagine che il pubblico ama e con cui si identifica. El Paraíso, diretto da Enrico Maria Artale, non ha esitato a riflettere la vita così com’è e le madri per come sono, anche nei loro difetti. Alcune possono essere severe, tossicodipendenti, squilibrate o persino così controllanti da far impazzire i loro figli e impedire loro ogni possibilità di fuga.
Premiato a Venezia nella sezione “Orizzonti” per la migliore sceneggiatura e interpretazione femminile, insieme al Premio Arca – Cinema Giovani, El Paraíso sarà proiettato il 4 giugno a Open Roads. Nel film, Margarita Rosa De Francisco, star della televisione colombiana, interpreta una madre tossicodipendente che manifesta comportamenti ostili verso qualsiasi donna che lei percepisce come una minaccia per il rapporto con suo figlio Julio, interpretato da Edoardo Pesce. Per la genitrice, il ragazzo assume quasi il ruolo di un marito e la sua presenza oppressiva gli impedisce di crescere e di diventare un uomo indipendente. Pesce, che ha contribuito all’idea originale della sceneggiatura, si trova in un conflitto interiore tra il desiderio di emanciparsi e il profondo bisogno di rimanere legato a sua madre, verso la quale nutre comunque compassione e amore.

“Il film nasce da un lungo processo biografico e artistico – racconta Artale, – intrapreso durante la creazione del documentario Saro e incentrato sul mio primo e unico incontro con mio padre, avvenuto quando avevo venticinque anni. Inizialmente, il mio obiettivo era cercare di capire perché lui non ne ha voluto sapere di me per tanto tempo, ma nel processo di elaborazione degli eventi ho compreso soprattutto il rapporto tra me e mia madre. Quindi quell’esperienza mi ha lasciato il desiderio, ma anche l’esigenza, di approfondirlo e accettarlo”.
Ci sono voluti sette anni per realizzare il film. Per il regista, è stato un lungo e profondo processo di scrittura. “Questo tempo è stato necessario per raccontare il legame che ha segnato profondamente la mia vita, cresciuto solo con mia madre. Ho voluto trasfigurare questo rapporto in un immaginario diverso e inserirlo nella storia tra Giulio Cesare e sua madre. Rappresenta in parte le mie paure adolescenziali, la paura di rimanere intrappolato in questo legame. La mia esperienza è stata diversa: sono andato via di casa a 22 anni, mentre il nostro protagonista, Giulio, ha 40 anni, la mia età attuale, e vive ancora con sua madre”.
Madre e figlio sono fusi in una simbiosi indissolubile, una danza eterna tra luce e ombra, amore e sofferenza. Entrambi sono incapaci di separarsi e trovare un proprio cammino individuale. Il cinema diventa così per Artale un mezzo per immergersi in un percorso introspettivo, alla ricerca di una riflessione sulla propria esistenza. ” Volevo esplorare il legame speciale tra madre e figlio, cercando di capire come influisce sulla nostra psiche. Mi sembrava essenziale affrontare questa paura e superarla. Credo che, con il tempo, ci liberiamo delle nostre ansie e questioni più profonde, se seguiamo un percorso di sviluppo personale. Tuttavia, questo cammino non termina mai, giusto? Quindi, riflettere su questi argomenti mi appare sempre rilevante, un modo per curare l’anima”.
Costretta a lasciare la Colombia in giovane età, incinta del figlio, la madre di Julio vive di ricordi e nostalgia per la sua terra natia. Il regista immagina un angolo di Sud America alla periferia di Roma, con i due protagonisti che abitano in una casetta sulle sponde del fiume Tevere. Amano andare in gita in mare aperto su una piccola barchetta e condividono la passione per i balli latinoamericani. Il nome stesso della madre, Magdalena, evoca non solo riferimenti evangelici, ma anche il maestoso fiume che attraversa la Colombia, il Río Magdalena, uno dei più imponenti del continente americano. Un nome simbolico, poiché, come sottolinea il regista, “non sappiamo nemmeno se sia il suo vero nome o se lo sia scelto lei stessa, visto che il suo passato rimane avvolto nel mistero fino alla fine”.
Con El Paraíso, Artale ci trasporta in un rapporto soffocante, dominato dai silenzi dove i pochi dialoghi sono parlati in un ibrido creativo di romanesco e spagnolo. “A volte le parole rischiano di non trasmettere appieno le emozioni, di non arrivare al cuore delle cose. C’è un limite nel linguaggio verbale, soprattutto quando si parla di lutto e di dolore. In quei momenti, il silenzio, lo sguardo, la postura del corpo possono comunicare molto di più in modo sintetico. Edoardo mi ha seguito in questa visione: abbiamo tagliato alcune battute superflue dal copione e, girando il film, abbiamo capito che potevamo arrivare all’essenza delle cose. Ci sono dei silenzi che lui mi ha regalato e che ancora oggi, quando vedo il film, mi colpiscono”.
Il film ci ricorda anche il dramma dei “muli”, i corrieri del narcotraffico che trasportano droga attraverso i confini internazionali, spesso nascondendola all’interno del proprio corpo. Qui la mula è Ines (Maria del Rosario), una giovane colombiana che una volta arrivata a Roma espelle gli ovuli di cocaina che ha ingerito. “Non volevo proporre il solito cliché della droga in ambienti ai margini, ma il personaggio di Ines mi permette di fare una riflessione più generale sulle dipendenze umane non solo tra madre e figlio”.
El Paraíso arriva nelle sale italiane il 6 giugno, nel frattempo Artale sta già lavorando a un altro progetto su una serie francese tratta dal film di Jacques Audiard, Il profeta. “Ho lavorato su molte serie nel corso della mia carriera e sento che questo progetto rappresenti un po’ il culmine di un lungo percorso. Tuttavia, mi lascia con un desiderio intenso di ritornare al cinema. Trovo che la libertà che il cinema offre, soprattutto in termini di tempo per raccontare storie, sia più stimolante”.