A Cannes, l’edizione 2025 di Un Certain Regard si è aperta sotto il peso delle aspettative e dei simboli: tre attori hollywoodiani al loro debutto da registi, Kristen Stewart, Scarlett Johansson e Harris Dickinson, titoli già circondati da chiacchiericcio e polemiche, e il solito interrogativo che aleggia nei corridoi del Palais: “Chi sta davvero reinventando il cinema?”. La risposta, come spesso accade, non è arrivata dai nomi in locandina, ma da chi lavorava in silenzio.
Diego Céspedes, cileno, classe 1995, ha portato a casa il premio principale con The Mysterious Gaze of the Flamingo, un film che molti, nei primi giorni del festival, non avevano nemmeno inserito nei pronostici. E invece eccolo lì, sul palco, commosso, a parlare d’amore e marginalità in una storia sospesa tra desiderio, identità e memoria, ambientata in un villaggio transgender negli anni dell’AIDS. Il titolo, bellissimo e quasi surreale, sembrava già una dichiarazione di poetica.
La giuria del “secondo concorso” di Cannes 2025 era presieduta dalla regista britannica Molly Manning Walker, che due anni fa aveva vinto proprio Un Certain Regard con How to Have Sex, affiancata da Louise Courvoisier, Roberto Minervini, l’attore Nahuel Pérez Biscayart e la direttrice del Festival di Rotterdam Vanja Kaluđerčić.
Il Premio della Giuria è andato invece a A Poet, opera seconda del colombiano Simón Mesa Soto, una commedia nera e amara su un insegnante di poesia disilluso e un allievo prodigio. Una storia divisa in quattro capitoli, girata in 16mm e attraversata da un umorismo sporco e disperato, che ha convinto la giuria per “l’autenticità e la sottile gestione di personaggi moralmente ambigui”. Sul palco, Mesa Soto ha dedicato il premio “a chi prova a fare arte. È un lavoro maledettamente difficile. Questo film parla anche di questo”.
Il premio per la miglior regia ai fratelli palestinesi Tarzan e Arab Nasser, per Once Upon a Time in Gaza, cronaca disperata e visionaria di due giovani spinti al limite in una terra che oggi è una ferita aperta. “Dite loro di fermare il genocidio”, ha riportato uno di loro, citando la madre rimasta a casa. È stato uno dei momenti più intensi, non solo della cerimonia, ma dell’intero festival.
Cléo Diara, interprete in I Only Rest in the Storm, ha vinto il premio per la miglior interpretazione femminile. “Se un Paese non è libero, nessuno è libero. Free Palestine”, ha dichiarato e ancora: “Alle ragazze nere: non lasciate che vi dicano che non potete farcela”. Accanto a lei, Frank Dillane ha commentato il suo riconoscimento per Urchin, un ritratto crudo e affettuoso di una Londra ai margini, diretto da Harris Dickinson, anch’egli al debutto dietro la macchina da presa. “Niente è peggio di un attore senza personaggio”.
E poi c’è stata la sorpresa di Pillion, BDSM romantico e brutale scritto e diretto da Harry Lighton. Una storia d’amore tra bikers, tra cuoio e fragilità. Il film ha vinto per la sceneggiatura, ma avrebbe meritato anche per il coraggio. Lighton ha ringraziato la comunità kink – quel mondo sommerso fatto di regole proprie, desideri fuori norma e relazioni che sfidano le convenzioni – per avergli concesso “di ridere con, e non di”. E ha aggiunto con autoironia: “Per fortuna i miei produttori mi hanno fermato quando ho proposto di ambientare tutto nell’Antica Roma”.
Nulla di fatto per La città di pianura e Testa o croce?, i due titoli italiani in concorso, che pur apprezzati sono tornati a casa a mani vuote.