Arriva a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, Le città di pianura, primo lungometraggio di Francesco Sossai, regista bellunese che aveva già lasciato una traccia col corto Il compleanno di Enrico, e che adesso, con questo film nato da vagabondaggi reali e notti sfilacciate, ci accompagna lungo le strade poco illuminate di una campagna veneta spogliata di ogni romanticismo.
Due uomini, Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla), entrambi cinquantenni e ormai fuori tempo massimo, attraversano in macchina una provincia fatta di bar sparsi, rotonde sempre uguali e silenzi che sembrano non finire mai. Finché non si imbattono in Giulio, un giovane architetto appena laureato, che per ragioni non del tutto chiare si unisce a questo strano vagare, condividendo con loro non tanto un obiettivo, quanto una deriva esistenziale in cui tutto si sfalda e nulla sembra davvero necessario.
Sossai gira con uno sguardo quieto, senza voler dimostrare, senza insistere. “Non preparo storyboard, non faccio liste di inquadrature. Scelgo i luoghi e li giro come se li vedessi per la prima volta”, racconta. E in effetti tutto sembra accadere in presa diretta, come se il film stesso non sapesse ancora bene dove andare, ma accettasse di camminare così, tra una pausa e l’altra, tra una chiacchiera inutile e un’improvvisa dolcezza. Il paesaggio della pianura non viene reinventato: è quello che è. Un margine urbano dove la campagna ha perso la sua forma e la città non si è ancora imposta. Lo chiama “un cimitero ricco”, Sossai, e lo filma senza giudicarlo, senza nostalgia.
Carlobianchi e Doriano sono uomini che si muovono sul bordo, appartenenti a una generazione che ha perso l’orientamento ma continua a cercare qualcosa, anche se non sa più bene cosa; Giulio, interpretato da Filippo Scotti, che il pubblico ha già conosciuto in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, li osserva senza giudicarli, provando a comprendere un mondo che non gli appartiene, ma al quale per una notte si avvicina, in un incontro che non cambia nulla e proprio per questo lascia una traccia.
Il bel film di Sossai non forza mai la mano e lascia che siano i luoghi, i corpi, le attese a parlare. Non ci sono svolte narrative né spiegazioni: solo tre persone che si incrociano per un tratto e poi si lasciano, senza clamore. Ma è proprio questa discrezione a tenere insieme tutto: un racconto minimale, dove anche l’assenza diventa una forma di presenza.