Un film su Goliarda Sapienza. Basta la frase per stuzzicare i palati cinefili e letterari, per evocare una figura borderline e postuma, una delle più incandescenti della cultura italiana del Novecento. Fuori, scritto da Mario Martone insieme alla sua co-sceneggiatrice abituale Ippolita Di Majo, si muove proprio in quella zona di confine, senza cercare di definirla, ma con il desiderio discreto di restarle accanto. È l’unico film italiano in concorso a Cannes, e sceglie la via dello sguardo, non della spiegazione.
Dopo aver alternato negli anni elegie scolpite (Il giovane favoloso) e ritratti sociali più spigolosi (Nostalgia), Martone si concentra su un momento preciso della vita di Sapienza: i primi anni ’80, tra precarietà economica, piccoli furti, carcere e relazioni femminili ai margini. Un’estate, ha detto il regista, “in cui nulla doveva accadere, ma tutto doveva essere”. E tutto in effetti resta sospeso, dentro un’architettura narrativa ellittica che non punta alla ricostruzione cronologica ma alla circolazione frammentaria di stati d’animo, ricordi e presenze.
Valeria Golino, che Sapienza l’ha conosciuta davvero – e che lo scorso anno ha presentato a Cannes la miniserie L’arte della gioia, firmata da regista – qui la interpreta con un pudore che rasenta il distacco. Niente caricature, per carità. Il film la mostra mentre cerca lavoro come donna delle pulizie, mentre telefona a datori di lavoro che la rifiutano per età, mentre ritrova vecchie compagne di carcere. Ma la scrittrice che sognava la gioia come atto di sovversione, quella che parlava di piacere e anarchia, di corpi e libertà, resta ai margini dell’inquadratura. Una presenza riconoscibile, ma sempre un passo indietro
Eppure c’è una certa bellezza ostinata nel modo in cui Fuori si aggira attorno a ciò che non dice. La Roma afosa di quell’estate è svuotata, spenta, percorsa da una quiete opprimente. E nelle sequenze girate all’esterno si avverte una strana claustrofobia, come se la vera prigione non fosse quella delle sbarre ma quella del mondo fuori, dove l’emancipazione si misura in telefonate ignorate e rifiuti umilianti.

Foto di Mario Spada.
Sul piano emotivo, il film si regge in buona parte sull’interazione tra le tre interpreti principali. Matilda De Angelis è Roberta, una delle ex detenute con cui Sapienza mantiene un legame ambiguo, tenero, forse affettivo. La De Angelis – che ha raccontato di essersi sentita “guardata con gli occhi di Goliarda” – restituisce la complessità di un personaggio che sembra uscito dalle stesse pagine della scrittrice. Elodie, nel ruolo di Barbara, è priva di sovraccarichi: incarna una maternità dolce, quasi protettiva, che diventa un rifugio nell’asprezza del contesto. Niente forzature, niente vezzi: gioca su pochi segni e basta quello.
Quando il film sembra trovare un possibile punto d’incontro tra le traiettorie delle tre protagoniste – una scena d’intimità, un gesto che pare aprire uno spazio di riconoscimento reciproco – la struttura torna a scomporsi. Anche i momenti che sembrerebbero destinati a diventare centrali – la precarietà economica, il tentativo di suicidio, l’emergere della scrittura – affiorano come passaggi tra gli altri, senza che il racconto cerchi di costruire intorno a loro una svolta narrativa.
Ci viene detto che ha scritto L’arte della gioia, certo. Ma non ne vediamo la genesi. La scrittrice che duellava in TV con Enzo Biagi, quella rivalutata dai critici francesi anni dopo la sua morte, si mantiene in ombra, senza rivelarsi del tutto, e forse proprio questo evita di semplificarla. I suoi libri restano lì, non sempre perfetti, a volte contraddittori, pronti a offrire un’altra via d’accesso a una voce letteraria che ancora oggi spiazza, divide, interroga.