Un film su Goliarda Sapienza: basta dirlo per attirare l’attenzione di chi ama il cinema che incrocia la letteratura e le biografie fuori asse. Fuori, scritto da Mario Martone con Ippolita Di Majo, non prova a incasellare una figura così difficile da contenere. Si muove sul filo, accanto alla Sapienza, senza mai pretenderne il controllo. Ispirato a L’università di Rebibbia (pubblicato nel 1983), è l’unico titolo italiano in concorso a Cannes e sceglie un approccio rarefatto: non racconta, osserva.
Dopo aver alternato negli anni elegie scolpite (Il giovane favoloso) e ritratti sociali più spigolosi (Nostalgia), Martone si concentra su un momento preciso della vita di Sapienza: i primi anni ’80, tra precarietà economica, piccoli furti, carcere e relazioni femminili ai margini. Un’estate, ha detto il regista, “in cui nulla doveva accadere, ma tutto doveva essere”. E tutto in effetti resta sospeso, dentro un’architettura narrativa ellittica che non punta alla ricostruzione cronologica ma alla circolazione frammentaria di stati d’animo, ricordi e presenze.
Valeria Golino, che Sapienza l’ha conosciuta davvero – e che lo scorso anno ha presentato a Cannes la miniserie L’arte della gioia, firmata da regista – qui la interpreta con un pudore che rasenta il distacco. Niente caricature, per carità. La vediamo fare telefonate a vuoto per cercare lavoro, pulire case, muoversi in una città che non le restituisce nulla. I momenti più privati — il ritorno alle amicizie nate in carcere, i silenzi lunghi, i piccoli gesti — parlano più di qualunque monologo. La Sapienza che scriveva di piacere, insubordinazione e corpi liberi resta defilata, come se il film volesse restituirne il contorno, senza ridurla a una versione comoda.
Fuorisi muove tra due piani temporali: da un lato i giorni trascorsi dietro le sbarre; dall’altra, il ritorno a una libertà solo apparente, che Goliarda Sapienza osserva con occhi profondamente segnati dall’esperienza carceraria. L’incontro con le altre detenute diventa per lei uno strumento di confronto e consapevolezza, attraverso cui leggere un’Italia ipocrita, perbenista, conformista, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. La Roma estiva che attraversa è deserta, immobile, soffocata da una calma irreale. Anche nelle scene all’aperto si respira un senso di costrizione: come se la prigione vera fosse proprio quella del mondo esterno.

Foto di Mario Spada.
Sul piano emotivo, il film trova la sua forza nell’alchimia tra le tre protagoniste, in particolare nel rapporto tra Goliarda Sapienza e Roberta — interpretata da Matilda De Angelis — un personaggio ricco di contraddizioni: ex detenuta, legata agli ambienti della lotta armata, tossicodipendente, ma anche capace di tenerezza e ambiguità.
Elodie, nel ruolo di Barbara, recita in sottrazione. La sua figura, che cerca di ricominciare fuori dal carcere, suggerisce una via d’uscita possibile, ma tutt’altro che semplice.
Fuori dal carcere si intravede un possibile punto d’incontro tra le tre protagoniste, ma la narrazione torna presto a frammentarsi. Anche gli episodi che potrebbero assumere un peso centrale — la difficoltà economica, il tentato suicidio, l’avvicinamento alla scrittura — restano sullo sfondo, trattati come passaggi tra altri, senza che la regia cerchi di costruirci attorno una svolta.
Il film nomina L’arte della gioia, ma non ci porta dentro la sua nascita. Il romanzo, inizialmente ignorato in Italia e riscoperto solo dopo il successo in Francia nel 2005, resta sullo sfondo, come un segno senza spiegazione. Anche la figura pubblica di Goliarda Sapienza – quella che discuteva in TV con Biagi, quella riscoperta postuma – non viene pienamente svelata. È una presenza sfuggente, che il film sceglie di non spiegare fino in fondo. E forse è questa distanza a preservarne la complessità. I suoi libri restano lì, non sempre perfetti, a volte contraddittori, pronti a offrire un’altra via d’accesso a una voce letteraria che ancora oggi spiazza, divide, interroga.