Tutte le tensioni che attraversano le estetiche del cinema contemporaneo, le più audaci come le più convenzionali, sono emerse con forza nel fine settimana più denso della Croisette: sabato 17 e domenica 18 maggio 2025.
Nel Concorso ufficiale, le polarità estetiche si sono fronteggiate in modo quasi esemplare. In particolare con Eddington di Ari Aster – regista già noto per Hereditary, Midsommar e Beau ha paura – si è toccato un nodo centrale: il rapporto sempre più ambiguo tra trauma e spettacolo. Ambientato nel 2020, in piena pandemia, in un villaggio del Nuovo Messico, il film mette in scena lo scontro tra lo sceriffo (Phoenix), negazionista, e il sindaco (Pascal), in difesa delle misure sanitarie. Il paese si spacca, i sospetti dilagano, la paranoia si fa atmosfera.
Un vero e proprio “western mentale” che racconta l’America contemporanea con lenti deformanti. Sette minuti di standing ovation hanno suggellato la proiezione, con Phoenix visibilmente commosso. E in conferenza stampa, dopo iniziali reticenze, è stato Pascal – nuovo sex symbol hollywoodiano e voce attiva per i diritti LGBTQIA+ – a rompere gli indugi. Alla domanda su quanto le pressioni politiche influenzino oggi la libertà artistica, ha risposto senza giri di parole: “Che si fottano quelli che cercano di metterti paura. Con la nostra paura loro vincono. Noi dobbiamo continuare a raccontare storie, resistere, combattere, non dargliela vinta”.

Die, My Love di Lynne Ramsay ha mostrato il volto più passionale (e problematico) del melodramma moderno. Jennifer Lawrence e Robert Pattinson incarnano l’amore come ferita e possessione. Lawrence ha letteralmente sfilato nella metamorfosi del suo personaggio: abito Dior bianco in apertura, nero in chiusura.
Un colpo a sorpresa, invece, è giunto da Pillion di Harry Lighton, proiettato in Un Certain Regard domenica 18 maggio. Un BDSM-drama queer, tratto da Box Hill di Adam Mars-Jones, che ha saputo riflettere sul potere, sul desiderio e sulla costruzione dell’identità attraverso la dinamica della sottomissione. Alexander Skarsgård, in pelle nera, ha abbracciato un uomo con maschera da gimp sul palco, tra applausi scroscianti. Il regista non ha lasciato spazio a dubbi: «Volevo farvi ridere, pensare, sentire e arrapare». Lo ha fatto.

Di tutt’altro segno La trama fenicia di Wes Anderson, che ha riportato in scena la sua geometria narrativa e visiva, al servizio però di una malinconia nuova. Con un cast corale (Johansson, Del Toro, Hanks), il film è una riflessione metacinematografica sulla narrazione come forma di inganno, affetto e potere.
Richard Linklater, invece, con Nouvelle Vague, ha fatto un’operazione da cinefilo puro: in bianco e nero vibrante, ha rievocato la nascita del capolavoro di Godard, Fino all’ultimo respiro, senza cadere nella nostalgia. È un film sul film, ma soprattutto una riflessione sull’eredità delle rivoluzioni artistiche e sul rischio di museificarle. Più che un omaggio, una domanda: oggi, chi ha ancora il coraggio di rompere il quadro?
E sul fronte delle icone, riflettori puntati su Nicole Kidman, tornata a Cannes dopo otto anni per ricevere il premio Women in Motion. Ma Cannes, si sa, è anche terreno minato: Kevin Spacey è atteso il 20 maggio per un premio che già divide. Il rischio? Che la Croisette si trasformi in un tribunale senza aula, dove la linea tra arte e responsabilità pubblica diventa sempre più sottile – e affilata.