Sul tappeto rosso di Cannes, Bono Vox non è solo. Accanto a lui non ci sono rockstar o attori in abito da gala. Ci sono uomini in uniforme, soldati ucraini, che sfilano in silenzio come fantasmi consapevoli. Il pubblico applaude. Non per il glamour, ma per il peso di un gesto che rompe lo scintillio con la realtà.
È il preludio di una proiezione che si trasforma in rito collettivo. Bono: Stories of Surrender, diretto da Andrew Dominik, dal 30 maggio su Apple TV+, non è un racconto, ma una resa: quella dell’uomo dietro il mito, del figlio dietro il frontman, dell’irlandese dietro la rockstar. Il regista affida al bianco e nero il compito di restituire le sfumature più intime di una voce che ha attraversato decenni, guerre, stadi, battaglie per i diritti e la giustizia.
Quasi sette minuti di standing ovation. Applausi che non sono solo per la regia, per la musica, per la memoria messa in scena. Sono per lui. Poi prende il microfono, e in un francese incerto ringrazia. Ma è in inglese che si rivela: “Non sono un uomo francese. Sono un uomo irlandese. E non sono un uomo che si è fatto da solo”. Indica la moglie Ali, i suoi fratelli di palco – The Edge, Adam Clayton, Larry Mullen Jr. – e il manager Paul McGuinness. “Avete scritto voi questa storia. La stiamo ancora scrivendo. È un’opera in corso”. Il film comincia nelle aule grigie di una scuola dublinese e si intreccia con la morte della madre, con l’ostilità silenziosa di un padre cattolico che non capiva la musica ma ne intuiva il pericolo. Con la tenerezza di una moglie che ha creduto in lui prima ancora che lui ci credesse davvero.

Niente grandi palchi, niente U2. Solo un tavolo, quattro sedie, una tastierista, un batterista, un’arpa. E Bono. Seduto, in piedi, a volte immobile. Ricostruisce sé stesso attraverso le parole, le canzoni, i silenzi. Racconta la visita surreale di Luciano Pavarotti a Dublino, come si racconta un sogno che ha bucato la realtà. Racconta la vergogna, la gioia, la rabbia. Racconta Sunday Bloody Sunday, With or Without You, Vertigo – ma non canta: evoca.
Ma è alla fine, in Italia, che il cerchio si chiude. Ultima scena: Napoli, Teatro San Carlo, Bono intona Torna a Surriento, a cappella. È per il padre. Per quell’uomo che cantava da tenore e lo guardava crescere come un’anomalia inquieta. È per la memoria. Per il Sud. Per la vita che passa, ma si ostina a voler lasciare traccia.
E intanto, sul red carpet, l’immagine dei soldati ucraini accanto a lui resta impressa come una dichiarazione politica senza proclami. Bono non brandisce la pace come uno slogan, la indossa come una vecchia giacca sgualcita, testimone di mille battaglie. Dalla cancellazione del debito africano alle campagne contro l’AIDS, la sua voce ha sempre cercato spazi in cui potesse diventare eco.