Tre anni fa vincitrice della Quinzaine des Réalisateurs con A Night of Knowing Nothing, l’indiana Payal Kapadia è tornata in Croisette, stavolta in competizione per la Palma d’Oro con All We Imagine As Light; ha vinto invece il Grand Prix, il secondo premio in palio (la Palma d’Oro è andata a Anora dell’americano Sean Baker, a The Seed of the Sacred Fig dell’iraniano Mohammad Rasoulof il Premio Speciale della Giuria guidata da Greta Gerwig). All We Imagine As Light unisce tratti del cinema documentario con l’introspezione psicologica accompagnando gli spettatori in un viaggio verso una foresta incantata. È una storia di amicizia tra donne che devono confrontarsi col passato, col presente e coi loro desideri.
Kapadia ce ne ha parlato a Cannes, alla vigilia della distribuzione dei premi.
Il tema dell’emancipazione femminile in India è delicato. Com’è stato per te fare questo film, considerando questo e il fatto che normalmente vediamo solo protagonisti maschili, mentre tu hai tre addirittura tre protagoniste?
“Anche in India piano piano le cose stanno cambiando e ci sono sempre più film con e sulle donne. Anzi quasi ogni selezione quest’anno ha un film indiano che per lo più parla di donne e c’ è anche un’altra regista, Sandhya Sutri. Io sono sempre stata circondata da donne per questo penso che per me sia più facile parlare di loro. Penso che facciamo film che partono da esperienze personali. E poi è anche sicuramente una questione generazionale”.
Perché hai scelto la stagione dei monsoni per l’ambientazione di Mumbai?
“Mumbai ha solo due stagioni: monsoniche e non monsoniche. Ogni giorno ci sono 34-35 gradi e quando arrivano i monsoni diventa tutto imprevedibile. Volevo avere due stagioni nel film; il monsone è un momento molto particolare perché il modo in cui la città appare cambia completamente. Diventa di un bellissimo blu, ma a volte anche di un grigio afoso e all’improvviso irrompe la pioggia. Quando piove diluvia così tanto che a volte non riesci nemmeno a vedere l’edificio di fronte. Il monsone è associato alla fine dell’estate, quindi il caldo evapora con l’arrivo della pioggia, creando un paesaggio romantico. Ma la verità è che il monsone è anche un momento davvero difficile per le persone che devono andare al lavoro ogni giorno perché le strade si allagano e i binari del treno si riempiono d’acqua, non puoi tornare a casa, a volte rimani bloccato. Ora c’è un sistema di allarme rosso che ti dice di non uscire di casa se la pioggia sarà troppa. Ma il dipartimento meteorologico è sempre imprevedibile, insieme al fatto che se non sei ricco e non hai una macchina, attraversare la città durante i monsoni è un’odissea. Queste sono le due cose che volevo avere nel film”.
Nel film ci sono tre generazioni di donne, è stato un modo per mostrarci il cambiamento e la speranza per le giovani generazioni?
“La donna più anziana è un po’ più esuberante di quella di mezzo. Volevo avere donne di tutte le età e infatti all’inizio del film c’è una donna molto anziana e alla fine c’è una giovane persona nella baracca che balla. Era qualcosa di importante per me, quasi come se fosse la vita nelle sue diverse fasi”.
La luce è nel titolo. Ma è anche un elemento importante nel racconto. Come hai lavorato sulla fotografia?
“Ho vissuto molto a Mumbai negli ultimi anni ed erano già tre anni che pensavamo a come girare questo film insieme al direttore della fotografia. Volevamo rappresentare i colori dei monsoni. Molte persone devono coprire le loro case con plastica blu, per evitare che vengano distrutte dall’acqua. . La città diventa davvero blu elettrico con questa plastica che svolazza ovunque. Trovo molto cinematografico il modo in cui si muove nel vento. Il viola e il magenta sono anche colori che si vedono nelle ferrovie perché sono dipinte di questi toni. La seconda parte del film è a Ratnagiri, un distretto costiero a sud di Mumbai, dove c’è terra rossa. La terra rossa è molto rappresentativa di quel luogo e tutte le case sono fatte di mattoni di quella stessa pietra. Quindi la prima parte era più colorata dal monsone e la seconda parte era più rossa di Ratnagiri e dalle foglie secche. Anche il movimento della macchina da presa cambia dalla prima alla seconda metà. C’è una sensazione più verticale della città nella prima parte e una più orizzontale con l’oceano nella seconda parte. Queste idee mi vengono in mente perché quando vai alla scuola di cinema sono elementi su cui ti concentri”.
Che cosa volevi raccontare in particolare della vita di queste donne in India, a Mumbai e anche nelle piccole città?
“Per me, il fulcro del film è l’amicizia. Molte volte esci di casa e ti stabilisci in un’altra città, e sono i tuoi amici che diventano il tuo sistema di supporto, la tua famiglia. L’amicizia è una relazione strana, non è davvero definita come fratello-sorella, non c’è una definizione adeguata. È quello che tu e il tuo amico volete che sia. Man mano che invecchio e vivo lontano dalla mia famiglia, l’amicizia è diventata qualcosa di davvero importante per me. I tuoi amici diventano una sorta di famiglia scelta. Questo è uno dei temi che avevo. A volte i tuoi amici ti tradiscono, a volte sono lì per te. Anche io ho tradito i miei amici. Quando fai film, cerchi sempre di capire te stesso e il mondo che ti circonda”.
Ci sono scene di vita quotidiana che rappresentano i personaggi intenti a bere alcolici o ad avere rapporti intimi: perché hai scelto di farle vedere?
“Il pensiero collettivo in India si sta emancipando, anche grazie a piattaforme come Netflix, accessibili alla massa. Sicuramente ha contribuito a cambiare molto le cose in poco meno di dieci anni. Penso che sia solo l’inizio. Non sto dicendo che mostrare necessariamente il sesso nel cinema sia meglio o peggio. In India abbiamo la nostra comprensione culturale di come rappresentare queste cose e lo facciamo molto bene. È complicato. Ma per me, sentivo che il film parlava anche dei desideri di ciascuno dei personaggi, quindi era importante includere anche questo aspetto”.
Sullo sfondo del film c’è il problema delle persone che vengono sfrattate dalle loro case perché non possono produrre documenti, specialmente quelle che vivono nelle baraccopoli. A Mumbai, c’è una scena nel film in cui partecipano a una riunione del sindacato dei lavoratori. Quanto speranza c’è in questo? O è solo una messa in scena?
“Certo che c’è speranza. Sono una forte sostenitrice dei sindacati. Durante la mia ricerca su questo argomento, ho partecipato a molte riunioni organizzate dai sindacati dei lavoratori e da sindacati interpartitici operanti a Bombay, in particolare nella zona tra Lower Parel e Dadar, il vecchio quartiere delle fabbriche. Questa zona ospitava le fabbriche di cotone fino agli anni ’80, quando ci fu un enorme sciopero dei lavoratori. Invece di soddisfare le richieste dei lavoratori, gli industriali chiusero le fabbriche, causando enormi perdite di posti di lavoro. In un caso legale si stabilì che un terzo del terreno, inizialmente dato agli industriali a un prezzo sovvenzionato, doveva essere destinato alle famiglie dei lavoratori. Tuttavia, ciò non si è mai materializzato; invece, furono costruiti centri commerciali, presumibilmente come intrattenimento per le famiglie dei lavoratori, che non possono nemmeno entrare in quegli spazi. Il movimento è stato rivitalizzato. Molti ex lavoratori sono andati in pensione e sono tornati a Ratnagiri, un distretto da cui molti erano venuti per lavorare nelle fabbriche di Mumbai. Anche le donne lavoravano lì, spesso fornendo cibo per i lavoratori. C’è una rinascita in corso, con nuovi sforzi per sfidare l’ordine del tribunale. Anche se è un processo lungo, rimango speranzosa perché c’è ancora movimento. Molti avvocati sono specializzati in queste questioni e hanno ottenuto alcuni successi”.
Oltre al movimento dei lavoratori, il tuo film affronta temi come il controllo sulla maternità, il matrimonio e il significato dell’amore. Quanto era importante per te esplorare questi temi?
“Parlare d’amore è fondamentale, come si vede nel mio film precedente. In India, l’amore è politico, come lo è ovunque. Chi puoi amare e chi scegli di amare è complesso, influenzato da fattori come la casta e la religione. Le famiglie spesso dettano le scelte matrimoniali per preservare la purezza della casta. Questo problema era prevalente tra i miei amici, che lottavano con le aspettative familiari mentre si innamoravano. Per quanto riguarda il controllo sulla maternità, l’India ha diritti di controllo delle nascite migliori rispetto ad altri paesi perché non sono collegati alla religione. Si tratta di empowerment attraverso la conoscenza. Una volta che una ragazza comprende i suoi diritti, ottiene il controllo sul proprio corpo, come descritto nel film”.
Il tuo documentario precedente era piuttosto sperimentale. Come ha influenzato quell’esperienza il tuo debutto nel lungometraggio?
“Sono stato influenzata da registi che mescolano finzione e non finzione, come Jia Zhangke e Miguel Gomes. Alla scuola di cinema, ho esplorato l’interazione tra questi generi, il che ha aperto le mie idee sul cinema. Queste definizioni spesso servono ai festival e ai curatori, ma credo nel continuo sperimentare”.
Perché hai scelto due infermiere del Kerala? Il tema dell’estraneo è importante per te?
“Mumbai è casa per persone provenienti da tutta l’India, ognuna con la propria lingua e cultura. Nei treni di Mumbai, senti molte lingue, il che offre un senso di privacy. Spero che il pubblico occidentale, con i sottotitoli, possa apprezzare questa diversità”.
Come contribuiscono musica e suono alla narrazione?
“Uso il suono per passare dalla realtà oggettiva a uno spazio interno, spostando i suoni esterni verso quelli che evocano sentimenti interni. L’ambientazione della foresta simboleggia uno spazio selvaggio e non organizzato, in contrasto con la città civilizzata. Questo passaggio aiuta a creare un’atmosfera onirica”.
Potresti fare un film di Bollywood un giorno?
“Mi piacerebbe fare un film in stile Bollywood, perché raggiungerebbe un pubblico più ampio, non so neppure se potrei esserne in grado. La canzone presente nel mio film proviene da un vecchio film hindi, prima che il termine “Bollywood” diventasse popolare”.
Cosa significa vincere a Cannes?
“Essere in competizione è già una vittoria. Vincere è significativo, soprattutto per l’empowerment delle donne nell’industria. Più donne dovrebbero vincere, anche se non sono io”.
Sei sorpresa che ci sia voluto così tanto tempo per includere un film indiano in competizione?
“L’India produce molti film in diverse regioni. Non è chiaro perché non siano stati selezionati più film indiani”.
Tua madre Nalini Malani è molto famosa in in campo artistico, come ti ha influenzato?
“In India non è facile scegliere di fare questo mestiere, scegliere di diventare una regista, avendo una madre artista avevo già mezza strada spianata. Come artista poi ha assecondato le mie aspirazioni lasciandomi libera di scegliere. Mi ha influenzato certo vederla lavorare continuamente così in cucina come nel suo studio. Era instancabile: non era solo lavoro, era curiosità incessante per le cose del mondo. E penso che il cinema per me sia lo stesso. Mi piacciono le maestranze e la qualità artigianale del cinema che ti permette di sperimentare e provare le possibilità del linguaggio. Questo penso di doverlo a mia madre. Anche nel cinema non smettiamo mai di pensare a nuove soluzioni. È bello, è un piacere. È un privilegio”.