Pubblico rapito e grandi applausi per Jeremy Irons e Sinéad Cusack all’incontro del Salina Doc Fest a Santa Marina Salina. Premiati entrambi – lui con il Premio Irritec 2025, lei con il Premio Lady Wilmar – hanno discusso con la moderatrice Silvia Bizio di Palestina, dell’essere attori e del ruolo della cultura nel presente.
Irons si è espresso senza mezzi termini sulla questione palestinese definendo quello che sta succedendo un genocidio di fronte al quale la politica non fa nulla. “Non bisogna puntare il dito contro gli ebrei, ma contro i sionisti che dal 1890 lavorano per prendersi tutta l’area, e ora ci stanno riuscendo. È importante parlarne. Non c’entra nulla con l’essere antisemiti o anti-israeliani. È una questione di umanità. È una rimozione sistematica, da oltre cent’anni. Ed è una vergogna che i nostri politici l’abbiano permesso”. Protagonista del film Palestine ’36, della regista palestinese Annemarie Jacir, ambientato nel 1936, in pieno mandato britannico, ha raccontato di come il suo agente lo abbia messo in guardia dal fare promozione al lancio del film a Toronto: “Mi ha chiesto: ‘Sei sicuro di voler parlare di Palestina alla presentazione a Toronto?’ Gli ho risposto: ‘Fa parte del mio lavoro. E se dopo non mi faranno entrare negli Stati Uniti, dove dovrei presentare The morning Show, pazienza.”
Ha poi ricordato il periodo delle riprese: “Ho girato da un lato del Mar Morto, in Giordania. Guardavo l’altro lato, la Palestina, vicinissima. Ho visto il ponte dove i palestinesi devono fare la fila per rientrare nella loro terra. È una situazione terribile. Una vergogna.” “Ne siamo responsabili soprattutto noi inglesi che questa situazione l’abbiamo creata” interviene Sinéad Cusack, e lui annuisce.”
La discussione si è poi spostata sullo stato attuale del cinema. Irons ha offerto un’analisi lucida, non nostalgica: “Il film business, il cinema come lo conosciamo in un certo senso, è finito. È cominciato nel 1900, poi sono arrivati i grandi film del Novecento. Ce ne sono stati anche nel Duemila, poi però con la televisione e i computer è morta la visione collettiva. L’idea di sedersi insieme, davanti a un grande schermo, con un suono all’altezza… è qualcosa che abbiamo vissuto. Ma è finita. Resteranno delle sale, ci saranno delle proiezioni, ma per la maggior parte delle persone, oggi, l’esperienza cinematografica è solitaria”.
Cusack ha risposto con fermezza: “Non sono d’accordo. Le persone si sono sempre riunite per raccontarsi storie. Non stanno chiuse nelle loro stanze con un tablet in mano. Dobbiamo proteggerci da questa deriva. Bisogna rendere il cinema e il teatro talmente vivi e interessanti da riportare la gente nelle sale. Io faccio molto teatro e posso dirvi che la comunicazione tra attore e pubblico resta qualcosa di magico. E questa magia non si trova altrove.”
Il tono si è fatto più personale quando i due attori hanno parlato del loro rapporto sul lavoro. Cusack ha spiegato che lavorare con il proprio coniuge comporta sia rischi che vantaggi: “Essere marito e moglie significa avere un linguaggio personale, un vocabolario proprio. Il rischio è che questo vocabolario si imponga anche in scena. Ma c’è anche un vantaggio: conoscendosi così bene, si può portare una chimica reale sul palco o sul set. E poi, se uno ha avuto una brutta giornata di lavoro, di solito anche l’altro l’ha avuta. Quindi ci si capisce.”
Irons ha ricordato un episodio sul set di Waterland: “Nella scena, il bambino le veniva tolto dalla polizia. Lei era devastata, e io non sopporto quando Sinéad sta male. Così non riuscivo a recitare. Era troppo reale. Abbiamo dovuto fermare le riprese e riprenderle il giorno dopo”.
Il racconto si è alleggerito quando hanno ricordato il loro primo lavoro insieme, Wild Oats, alla Royal Shakespeare Company: “Non avevamo scene comuni. Ma una sera, nel passaggio dietro il palco, lei mi passa accanto e dice: ‘Aspetto un bambino’. E tutto quello che ho pensato, in quel momento, sono state le rette scolastiche e il mutuo”.
A conclusione dell’incontro, Irons ha sottolineato un’urgenza educativa: “Nei musei, vediamo bambini che fanno rumore ma imparano osservando. Dovremmo fare lo stesso con i film. Mostrare ai giovani i grandi film italiani, russi, americani, giapponesi. Devono vedere la storia del Novecento raccontata dal cinema. Non in un quadro, ma viva, sullo schermo. Con immagini e musica. È un modo molto più efficace per capire chi siamo”.