Il caos, per Oliver Stone, non è soltanto una condizione politica o sociale. È una sostanza mitologica, una divinità antica che attraversa epoche e culture, e che nel nostro tempo ha trovato una nuova incarnazione: quella di Donald Trump. Ma se il presidente degli Stati Uniti rappresenta la faccia più evidente di un disordine sistemico, forse proprio da lì – da quella forma di energia incontrollata e pericolosa – potrebbe nascere una possibilità di guarigione. Una rinascita dionisiaca, come suggerisce il regista stesso. Per questo Stone invita a non arrendersi. E lo fa evocando un film dimenticato, marginale per i canoni hollywoodiani, ma oggi più che mai necessario: Salvador.
L’occasione è il Salina Doc Festival, dove Stone è stato ospite d’onore per un evento speciale al cinema in piazza di Pollara e dialogato il giorno dopo al Rapa Nui Resort di Santa Marina Salina con la giornalista e produttrice Silvia Bizio.
Prodotto con mezzi di fortuna, osteggiato da studios e distributori, Salvador girato nel 1986 fu all’epoca un progetto ribelle. E lo è ancora. «All’epoca nessuno voleva distribuirlo», racconta il regista «Non c’erano soldi. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo in Centro America. Ma quel film resiste. È diventato qualcosa di diverso: un documento, un avvertimento».
La guerra civile salvadoregna – con le sue sparizioni, i massacri, i giornalisti torturati e i campesinos massacrati nelle campagne – era una realtà rimossa dal dibattito pubblico americano. «La gente non sapeva nulla. E chi sapeva, taceva», dice Stone. Allora il regista, reduce dal Vietnam, concepì con Richard Boyle, il giornalista sulla cui storia è basato il film, il piano folle di girare entrambe le versioni della storia: quella del governo e quella dei ribelli. Cercò addirittura la collaborazione dei militari salvadoregni, per poi fuggire in Messico per filmare l’altra parte della storia. L’uomo del governo assegnato alla produzione venne poi ucciso. «Era un incubo. Ma un incubo necessario».
Oggi, nel pieno di una nuova stagione di incertezza globale, Salvador riemerge come una parabola inascoltata. Il suo tempo, dice Stone, è adesso. Perché parla dell’America come potenza repressiva, incapace di accettare il cambiamento. «Negli anni Ottanta volevamo fermare ogni tentativo di riforma. In Honduras c’era finalmente un presidente onesto, ma lo abbiamo fatto fuori. Hillary Clinton, da Segretario di Stato, ha contribuito a destabilizzare la regione. Oggi ci lamentiamo dell’immigrazione. Ma siamo noi ad averla causata».
Salvador, in questa luce, non è più un film di denuncia: è una lente per leggere la genealogia di un disastro contemporaneo. Uno spartiacque tra il sogno americano e la sua versione distopica. E Trump, da questo punto di vista, non è un alieno, ma un sintomo. «Non so cosa pensi Trump. E forse non lo sa nemmeno lui. Ma il caos che ha scatenato è reale. È l’espressione di un’energia instabile, antica, greca. Può essere distruttiva, certo, ma anche rigenerativa. Perché dice delle verità, anche se in modo sconclusionato. Va ascoltato, almeno su certe cose».

Stone, come sempre, denuncia. La sua lettura dell’America è quella di un Ulisse stanco ma ostinato, che ha attraversato le tempeste della Storia e ora prova a raccontarle. «A quarant’anni avevo raggiunto il mio sogno», dice. «Ero arrivato a quel punto con Platoon, poi è cominciata un’altra odissea. Dalle polemiche su Natural Born Killers, a quelle per JFK, fino al caos mediatico. Ora sto scrivendo la seconda parte. Magari la chiamerò Iliade 2, o Odissea 1. Non so ancora».
Nel frattempo, continua a pensare a nuovi progetti, difficili da realizzare in un’industria che non accetta più rischi. «Negli Stati Uniti fare film di denuncia è quasi impossibile. Tutto è regolato dal denaro. I registi hanno paura. Paura di perdere il lavoro, paura di dire la verità. Così si autocensurano. La questione palestinese, per esempio: se ne parli, vieni distrutto. Io l’ho fatto. Nel 2006 ho diretto un documentario, e Hollywood mi ha fatto a pezzi. Ma era la verità. E qualcuno deve pur dirla».