Dalla Louisiana allo Stretto di Messina, passando per Hollywood e i disordini interiori che l’America di oggi sembra voler rimuovere: è in questa traiettoria che si colloca Spiaggia di vetro, il nuovo film di Will Geiger. Autore di Elvis & Anabelle, una fiaba dark con Blake Lively applaudita nel circuito indie, e regista dello spin-off Free Willy: Escape from Pirate’s Cove, Geiger è noto negli Stati Uniti per aver saputo coniugare sensibilità autoriale e racconto popolare. Ma è in Italia che firma il suo film più personale. Un’opera stratificata, poetica, a tratti brutale, che affonda le mani nel concetto più difficile da accettare nel nostro tempo: il perdono. Per sé stessi, prima ancora che per gli altri.
Il regista americano — nato a New York e figlio di un agente dell’FBI — è in Italia da diversi anni. Vive a Roma, in un appartamento non lontano dal Tevere, e quando gli chiedi se ha nostalgia di casa, risponde senza esitazioni: «L’Italia mi ha salvato. Il cinema italiano mi ha permesso di ritrovare una forma di libertà che Hollywood mi aveva tolto. In America devi sempre sapere dove stai andando, chi è il target, qual è il messaggio. Qui puoi ancora permetterti di non sapere. Puoi stare nel caos. E il caos, per un artista, è una grazia».
Spiaggia di vetro racconta il ritorno di Salvo, un pescatore siciliano che ha trovato lavoro in Calabria nella produzione artigianale di carbone per affumicatura. Dopo l’ictus che colpisce suo padre, torna nella casa d’infanzia. Ma la trova abitata da un’estranea: Binta, una donna africana, e suo figlio Moussa. La donna ha accudito il padre malato, che le ha lasciato il permesso di vivere lì. Salvo vorrebbe mandarla via, ma non può. E più il conflitto si esaspera, più emerge la ferita vera: Salvo è un uomo che non sa più a chi appartiene.
Geiger lo dice chiaramente: «Questa non è una storia sull’immigrazione. È una storia sull’integrazione mancata. Ma non da parte di chi arriva: da parte di chi torna e non riconosce più il proprio posto. Gli immigrati, ormai, sono parte di questa terra. Vivono qui, lavorano qui, crescono qui i figli. È chi non ha fatto pace con sé stesso che resta fuori».
L’idea è nata quasi per caso, ma si è sedimentata nel tempo. «Quando avevo 14 anni», racconta, «la mia insegnante di geografia ci fece fare un gioco. Dovevamo chiudere gli occhi, girare il mappamondo e puntare un dito. Io toccai Messina. Non sapevo nulla, ma scrissi un tema. Anni dopo, mi sono ritrovato davvero lì. Non è un caso. Era una chiamata».
Da quella chiamata è nato un percorso lento, silenzioso, fatto di immersione nella vita del Sud. Geiger ha vissuto tra Calabria e Sicilia per quattro anni. «Non puoi raccontare un posto se non lo vivi. Se non impari il ritmo delle persone. Il cinema non è documentazione, è risonanza». E così, nei suoi dialoghi scarni, nei silenzi lunghi, nei gesti minimi, il film riesce dove molti falliscono: non giudica. Mostra.
Nel frattempo, l’America brucia. Geiger la guarda da lontano, ma non con distacco. «Trump è una sintesi estrema di un problema più profondo: abbiamo smarrito il senso dell’altro. Lo vedo nella politica, nei media, nei rapporti quotidiani. C’è una cultura dell’esclusione che cresce ovunque. Ma è solo quando accetti l’altro che puoi rientrare in te stesso».

Foto: Ufficio stampa Story Finders
Il tema del perdono, allora, diventa politico? «No. È esistenziale. Salvo non riesce a perdonarsi per non aver saputo essere figlio. E ora non riesce a essere padre. È questa la sua paralisi. Quando cerca l’affidamento della figlia, gli viene concesso solo sotto sorveglianza. Non è un eroe. È un uomo che ha fallito. E che prova, con fatica, a tornare umano».
C’è una scena chiave nel film, quando Salvo osserva Moussa — il figlio di Binta — avvicinarsi a lui con fiducia. Nonostante tutto. Nonostante lo sguardo carico di rabbia. È lì che, secondo Geiger, il vetro inizia a diventare sabbia. «Da giovane il vetro taglia. Fa male. Ma se lo lasci nel mare, col tempo si leviga. Diventa trasparente, morbido. Come un ricordo che ha smesso di ferire».
Girare in Italia non è stato semplice. «C’è disordine, confusione, contraddizioni. Ma anche una vitalità rara. A Hollywood tutto è incasellato. Qui, a fine giornata, spesso non sai nemmeno cosa hai girato. Ma poi guardi il girato, e c’è qualcosa che vive. Perché il caos può essere fertile».
E Roma? «Una città dove non puoi mai sentirti troppo importante. Cammini accanto a millenni. E ti ridimensioni. Gli italiani si lamentano tanto, è vero — ride — ma non sanno quanto sono fortunati. Qui c’è ancora tempo per pensare. Per parlare. Per stare. In America, tutto corre. Ma a volte, per guarire, devi rallentare».
Non tornerà negli Stati Uniti. «Non so se l’America sia ancora il mio posto. Forse lo è stata. Ma so che in Italia ho trovato un altro modo di vivere. E forse anche un altro modo di amare».
Il suo prossimo progetto? «Una storia ambientata ancora in Sicilia. Ma molto diversa da Spiaggia di vetro. Forse con un budget più ampio. Ma senza perdere la verità. Perché non conta quanto spendi. Conta cosa senti».