Che Elio fosse un film anomalo, lo si era capito già dal trailer, e non soltanto per l’estetica satura e lo humor surreale. C’erano echi di Navigator, colori da pastello in overdose e una civiltà aliena che comunica con un ragazzino della Terra. E poi quella frase che sembrava uscita da un meme ben riuscito: “Io non rappresento la Terra, io vado alle medie”. Una dichiarazione d’intenti che, a suo modo, segnava un confine: questo non è il solito film per famiglie con gli alieni buoni, i finali edificanti e le metafore smussate.
A Roma sono arrivate le registe Domee Shi e Madeline Sharafian, la produttrice Mary Alice Drumm, e due voci italiane: Alessandra Mastronardi e Adriano Giannini. C’era un’aria da presentazione ufficiale, da appuntamento in agenda, ma anche la sensazione che Elio fosse qualcosa su cui la Pixar stava scommettendo un po’ fuori dai margini del proprio schema industriale.

Il film uscirà in Italia il 18 giugno e negli Stati Uniti due giorni dopo. Racconta la storia di Elio, undicenne con una fervida immaginazione e una voglia sincera – troppo sincera – di essere rapito dagli alieni. E, plot twist, succede davvero. Elio viene prelevato e trasportato nel Comuniverso: una sorta di assemblea cosmica, un’ONU dello spazio profondo, dove si tenta di stabilire un contatto con il nostro pianeta. E come in ogni errore diplomatico che si rispetti, nessuno sa bene chi dovrebbe rappresentare la Terra. Così scelgono lui, per sbaglio.
A questo punto Elio si ritrova in mezzo a creature che sembrano uscite da una versione psichedelica di Star Wars, prove esistenziali e domande da adulti, mentre a casa lo aspetta una zia che lo ha appena adottato e sta ancora cercando di capire come si fa, esattamente, a crescere un bambino.

Mary Alice Drumm, da brava produttrice Pixar, racconta con tono rassicurante che i progetti nello studio non nascono da algoritmi o studi di mercato, ma da qualcosa di molto più ineffabile: l’entusiasmo. Tutto sarebbe partito da Adrian Molina – co-regista, assente alla presentazione – e dalla sua idea di un ragazzino solitario che sogna lo spazio. Le due registe, Shi e Sharafian, si sono aggregate a metà percorso, ma abbastanza presto da farsi la domanda chiave: “Perché vuole andarsene dalla Terra?”. Un interrogativo che, a dirla tutta, si potrebbe estendere a buona parte dell’umanità.
“Volevamo che fosse un film sul senso di appartenenza. Ma anche sul bisogno di contatto”, dice Shi, che pronuncia la parola “contatto” come se avesse un significato tutto suo, profondo e nebuloso. Perché lo spazio, nel film, è un trucco: non è il tema, ma il veicolo. Serve per parlare di cose più umane: la solitudine, certo, ma anche la ricerca di qualcuno che ti ascolti senza dover alzare la voce. “Siamo cresciute con la sensazione di essere fuori posto”, racconta Sharafian. “Elio è anche questo: la storia di chi cerca il proprio gruppo, la propria tribù”. Tradotto: un film Pixar sull’essere strani, soli, e un po’ nerd. Niente di nuovo, ma detto bene.
si è commossa guardando il film una volta finito, come se le avesse parlato una parte sepolta di sé. Lui, dopo ore di urla da creatura spaziale, si è ritrovato senza voce ma con la sensazione che l’animazione, in fondo, funzioni proprio perché aggira le difese. Con un personaggio disegnato è più facile lasciarsi andare, e forse Elio serve anche a questo: ricordare che sentirsi inadeguati ogni tanto non solo è lecito, ma necessario.
Il film insiste su un tema chiave: comunicare. In una scena cruciale, Elio riceve segnali radio da ogni angolo del mondo. Voci vere, in lingue diverse, registrate con rigore geografico – dal Nord America al Senegal, fino all’Estremo Oriente. “Abbiamo chiesto a dei bambini: Cosa diresti se potessi mandare un messaggio nello spazio? Le loro risposte sono finite nel film”, spiegano le registe.

Nel Comuniverso non ci sono armi, né superpoteri. Le prove che Elio affronta sembrano uscite più da una seduta di psicoterapia che da un corso di addestramento per astronauti. “È il suo essere aperto che lo rende speciale”, spiega Sharafian. E qui siamo a un passo dal TED Talk motivazionale. “Elio non salva il mondo. Ma impara a non averne più paura”. Applausi.
Anche la radio ha un ruolo cruciale: oggetto vintage per eccellenza, fa da ponte tra i mondi e le persone. All’inizio Elio la usa per cercare vita intelligente, alla fine scopre che serve a parlare con chi ti è vicino. “È ancora oggi il segnale che viaggia più lontano nello spazio”. Una metafora gentile, e piuttosto riuscita, sul bisogno di connessione.
Il film, però, non si dimentica di aggiornare la sua sensibilità. Tocca anche i ruoli di genere, con Olga, la zia, descritta come forte e concreta, e Lord Grygon – che sembra un mix tra un generale e un orsacchiotto – incapace di gestire la propria vulnerabilità. “Mi ha colpito molto questa idea”, dice Mastronardi. “Perché ti fa vedere che anche i padri, o le figure autoritarie, possono avere dei dubbi. E non è un segno di debolezza. È solo umano”.