C’erano anni in cui a Gregg County, nel Texas orientale, nemmeno si stampavano le schede per i Democratici. Troppa fatica per niente. La contea, con le sue chiese battiste, le sue fiere agricole e le sue strade che portano nomi di ex coloni, vota compatta per il Partito Repubblicano da più di trent’anni. Eppure, nell’autunno del 2022, qualcosa ha scricchiolato: Marlena Cooper, insegnante, madre, attivista, afroamericana, si è candidata.
Non lo aveva mai fatto nessuno come lei. Né una donna, né una nera. E soprattutto, nessun democratico che non volesse solo fare presenza. A seguirla con la macchina da presa è stato Giovanni Troilo, regista italiano già noto per i suoi ritratti documentari a cavallo tra politica, antropologia e visione estetica. Con Democracy in America, prodotto da Sky e presentato in anteprima mondiale al Biografilm Festival di Bologna, Troilo ha scelto di fermarsi in un solo punto del Paese, e di raccontare una storia piccola solo in apparenza.
«Nei primi sopralluoghi quasi non ci sembrava esistessero comunità nere o immigrati. Ma c’erano, solo che vivevano in una realtà parallela», racconta Troilo. «Università per i bianchi e università per i neri, scuole separate, spazi separati. Il superamento della segregazione, lì, non si è mai davvero compiuto».
Nel film, Cooper si muove tra parcheggi di supermercati, centri comunitari, cucine di periferia. Fa campagna porta a porta in un territorio dove l’80 per cento dei votanti ha già deciso — e non per lei. Il suo avversario, Jay Dean, non ha bisogno di parlare troppo. Ha l’inerzia dalla sua parte. Le statistiche, le famiglie, il pulpito. E soprattutto ha il silenzio, quello di chi sa che vincerà.

Credit: Biografilm Festival / Courtesy of the artist.
Il documentario non si concentra solo su Marlena. Mostra la struttura invisibile che le si oppone: la burocrazia del voto, le chiese che suggeriscono per chi votare, le barriere pratiche come l’assenza di mezzi pubblici, le registrazioni elettorali da fare entro date impossibili da rispettare per chi lavora a turni. «In certi territori, senza un’auto, è impossibile raggiungere i seggi. Abbiamo visto comitati che portavano la gente a votare in pulmino, perché da soli non potevano farlo», racconta ancora Troilo.
I temi toccati dal film sono quelli che dividono l’America fin dalle fondamenta: l’aborto, il razzismo sistemico, la religione come identità politica. Ma il modo in cui vengono raccontati non è didascalico. Troilo si muove in sottrazione. Non denuncia: osserva. La fede è onnipresente, non come sollievo, ma come recinto. «All’interno delle chiese che abbiamo filmato, c’erano messaggi più o meno espliciti su chi votare. Anche chi non voleva Trump, alla fine lo votava perché sull’aborto non c’era possibilità di compromesso».
Il Texas filmato da Troilo non è quello dei deserti cinematografici o delle ranch house con la bandiera americana al centro. È un Texas verde, denso, pieno d’acqua e di alberi, dove la linea tra realtà e segregazione appare ancora tracciata, anche se non ci sono più cartelli. «Ci interessava raccontare un Texas che non si vede mai: niente cowboy, niente cactus. Volevamo restare, non attraversare».
C’è un momento, nel documentario, in cui Cooper bussa alla porta di un ragazzo nero che non ha votato. “Allora adesso tu mi prometti che convinci cinque persone a farlo”, gli dice. Non è solo una battuta. È il cuore del film: la fatica di convincere anche chi avrebbe tutto da guadagnare. Perché la disillusione ha scavato più in profondità delle parole.
Eppure, Marlena non cede. Ha perso, sì. Ma si sta già ricandidando. «Non molla. Però non mi aspetto un ribaltone. Piuttosto un cambiamento lento, progressivo. Se ci sarà», osserva Troilo, con la misura di chi ha visto più rassegnazione che rabbia. «Anche solo il fatto che si sia candidata è stato un gesto di rottura. Ma mi ha spezzato il cuore vedere quanto poco questo impegno abbia smosso».
Fuori dalla narrazione principale, la macchina da presa si ferma anche su dettagli laterali. Un comizio vuoto in una scuola pubblica. Un ponte verso un altro quartiere che nessuno attraversa. Una scritta su una parete sbiadita. «In certe zone il voto nero viene scoraggiato anche dal sistema stesso. Devi registrarti, avere i documenti in regola, fare file chilometriche. E se lavori tutto il giorno, semplicemente non ci riesci».
Il film si chiude senza trionfi. Non c’è nessuna “rivincita dei giusti”. «C’è un fortissimo senso della democrazia, quasi religioso. Ma dall’altro lato non si colgono mai davvero le conseguenze del voto. Trump ha vinto per una scelta precisa, consapevole. E anche questo, nel suo cinismo, è parte della democrazia».
Nel titolo, Democracy in America, si sente l’eco lontana di Alexis de Tocqueville. Ma qui la democrazia non è oggetto di analisi sociologica, è una materia viva, stanca, ferita. Qualcosa che si misura nei corpi, nei chilometri percorsi per trovare un seggio, nelle notti passate a compilare moduli, nell’essere guardati con sospetto solo perché si vuole votare.