Dennis Quaid ha scelto di non allinearsi. Invitato al Taormina Film Festival per ricevere un premio alla carriera, ha usato il palco per raccontare non solo mezzo secolo di cinema, ma anche la distanza crescente tra la sua visione del mondo e quella del sistema a cui appartiene.
Settantuno anni, una carriera che attraversa classici degli anni Ottanta e Novanta – da Breaking Away a Traffic, da The Day After Tomorrow a Ogni maledetta domenica – Quaid è tornato alla ribalta con The Substance, un horror satirico diretto da Coralie Fargeat, tra i titoli più discussi dell’anno, candidato a cinque Oscar.
Nel film interpreta un personaggio spietato, simbolo di un potere che si nutre di apparenza e desiderio. Il ruolo, costruito attraverso un lavoro attento sull’ambiguità e sulla decadenza dell’immagine pubblica, ha offerto all’attore un punto di osservazione privilegiato sul rapporto tra visibilità, controllo e cancellazione. Un tema che ha finito per intrecciarsi con la sua esperienza personale.
A differenza della gran parte dei suoi colleghi, Quaid ha sostenuto Donald Trump sin dall’inizio, partecipando apertamente alle sue campagne elettorali. Una scelta che, nel contesto di un’industria fortemente segnata da posizioni progressiste e dall’adesione quasi unanime al lessico del liberalismo hollywoodiano, lo ha reso progressivamente estraneo.
Nel corso dell’incontro con il pubblico a Taormina, ha ricostruito il clima di isolamento che ha seguito le sue dichiarazioni politiche, le pressioni ricevute, le accuse pubbliche, le reazioni ostili che ha dovuto affrontare dopo aver accettato di interpretare Ronald Reagan in un biopic diretto da Sean McNamara. Un film ancora inedito, incentrato sul ruolo dell’ex presidente nella fase finale della Guerra Fredda.
Anche in quel caso, il lavoro sul personaggio è stato meticoloso, fisico, ostinato. Ma non è bastato a evitare gli attacchi. La lettura che Quaid dà di quella stagione politica – e della figura di Reagan – non coincide con quella dominante.
Nel panorama del festival, segnato dagli interventi di Michael Douglas e Martin Scorsese contro l’ex presidente americano, la sua voce ha rappresentato una deviazione evidente. La posizione di Quaid non è nuova, ma continua a produrre attrito. In un sistema dove le opinioni tendono a ripetersi, chi devia rischia di essere espulso. Ha parlato anche dell’Italia, citando con favore la visita del presidente del Consiglio Giorgia Meloni negli Stati Uniti e sottolineando la buona riuscita, a suo parere, dell’incontro tra i due paesi sul piano commerciale. Il tono, come sempre nel suo caso, è rimasto pratico, poco incline all’elaborazione teorica.
Alla regia, sperimentata una sola volta negli anni Novanta, ha detto di aver rinunciato per scelta: troppe responsabilità, troppa dispersione. Preferisce il lavoro sull’attore, sul dettaglio, sulla trasformazione.
Nel racconto della sua formazione torna spesso Houston, non Los Angeles. Il Texas, non New York. Un’America diversa, più periferica, che rivendica come radice. In un festival dove gran parte degli ospiti ha ribadito le proprie convinzioni davanti a un pubblico già d’accordo, la presenza di Quaid ha ricordato che il dissenso, nel cinema, esiste ancora.