Al Taormina Film Festival Geoffrey Rush si è mostrato per quello che è oggi: un attore consapevole, curioso, ancora affamato di storie complesse. Porta in concorso The Rule of Jenny Pen, thriller psicologico cupo e disturbante dove interpreta un ex giudice colpito da ictus, costretto a fare i conti con il proprio passato e con un avversario che incarna l’imprevedibilità e la minaccia del caos.
Rush non ha mai nascosto la sua predilezione per i personaggi sfaccettati, e questo nuovo ruolo sembra cucito su di lui: finalmente non più travestito da vecchio o ringiovanito per esigenze di copione, ma in scena con la sua età, la sua voce, il suo corpo. Una presenza che non ha bisogno di orpelli per essere autorevole.
Accanto a lui, John Lithgow. I due si conoscono da anni e sul set si percepisce un’intesa rara, forse proprio perché entrambi sembrano abbracciare con naturalezza la stagione che stanno vivendo, quella in cui l’esperienza diventa materia viva da portare sullo schermo.
Rush guarda alla sua carriera con leggerezza e lucidità: dai tempi di Shine fino alla saga dei Pirati dei Caraibi, passando per collaborazioni preziose con registi come Gore Verbinski e Giuseppe Tornatore. Il suo rapporto con il cinema italiano non è superficiale: parla di registi e film come si parla di amici che lo hanno formato da lontano, prima ancora che diventasse una star.
Sul futuro dell’industria cinematografica è schietto. Non si illude: lo streaming ha cambiato tutto, e forse ha vinto. Ma non per questo è disposto a rinunciare all’idea di cinema come rito collettivo. Per lui, entrare in sala resta un atto di resistenza. Un modo per non dimenticare che le storie si ascoltano meglio insieme.