Sul tappeto rosso non c’è Boy George. A rappresentare i Culture Club, la band che negli anni Ottanta ha ridisegnato le coordinate dell’identità pop, ci sono Roy Hay e Mikey Craig. George non è sparito, ma come spesso accade, lascia che a parlare siano gli altri. O meglio: le immagini. Quelle del documentario Boy George & Culture Club diretto da Alison Ellwood, presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival di New York, in corso fino al 15 giugno. Un film che racconta, senza reticenze, la parabola di una delle band più ibride, fragili e influenti della musica inglese post-punk.
“Per anni abbiamo visto racconti falsati, fiction travestite da documentari,” dice Hay sul palco. “Questa volta no. Questa volta siamo noi, davvero”. Per Mikey Craig non si tratta di un’operazione nostalgica È qualcosa di più scomodo: “Tornano fuori dolori mai rimarginati. All’inizio eravamo solo quattro ragazzi spaesati. Poi da quello spaesamento è nata una collisione. E da lì tutto: cultura, musica, identità. Culture Club non è mai stato un piano. È stato un impatto”.

Un impatto disordinato, esplosivo, che negli anni Ottanta ha preso forma nei lineamenti androgini e nel trucco teatrale di George, nella voce soul e nei testi ambigui, nei colori sgargianti e nei riferimenti queer disseminati tra i video e le performance. Do You Really Want to Hurt Me e Karma Chameleon sono diventate hit mondiali proprio perché mettevano in scena un desiderio senza etichette, un’identità in fuga. Ma quel successo ha un prezzo. E il prezzo arriva presto.
Il documentario affronta senza retorica il nodo che per anni è stato taciuto: la relazione sentimentale (e tossica) tra Boy George e Jon Moss, il batterista. “Non ero mai stato con un uomo”, confessa Moss nel film. “Con George fu un colpo di fulmine. Ero soggiogato”. Il trauma di quella relazione segreta – e ingestibile – ha scavato ferite profonde nella band. Ma ha anche alimentato la loro musica.
Roy Hay non si nasconde: “Jon mi manca. Mi manca suonare con lui. Era una soap, certo. Ma Culture Club era anche qualcosa che nessuno è mai riuscito a replicare”. E lancia una stoccata all’industria di oggi: “Le band sono sparite. Sono rimasti solo solisti, autotune, produttori. Nessuno più che suona insieme. Io sto con Dave Grohl: chiuditi in un garage con gli amici e suona. Il resto è plastica”.
È difficile, oggi, ricordare quanto Boy George fosse esposto in quegli anni. La sua effeminatezza sfrontata, le dichiarazioni pubbliche sulla sua omosessualità, la dipendenza da eroina e la crisi professionale lo rendono il bersaglio ideale per la stampa inglese, che con il pretesto del moralismo lo attacca con una violenza omofoba sistemica. Siamo negli anni della Clause 28, il provvedimento del governo Thatcher che vietava la “promozione dell’omosessualità” nelle scuole e negli enti pubblici. Le associazioni vengono smantellate, il sostegno istituzionale sparisce. George resta solo.
Ma non tace. Nel 1988 pubblica No Clause 28, brano dance-politico prodotto dalla sua etichetta More Protein, frequentando rave clandestini, club acid house e occupandosi di musica come strumento di resistenza. Lo fa in un momento in cui in molti lo considerano finito. Invece, sta rinascendo.
Il documentario non si limita alla cronaca della band. Ricostruisce ciò che i Culture Club hanno rappresentato: un’anomalia radicale in un’Inghilterra che chiedeva conformità. Un ragazzo gay effeminato, un nero giamaicano, un ebreo punk, un biondo dell’Essex. Erano troppo per quell’epoca. Eppure esistevano. E funzionavano. Craig lo dice chiaramente: “Abbiamo dato voce a chi non ce l’aveva. Per questo ci amavano. Per questo contavamo.”
Oggi i Culture Club esistono ancora, a intermittenza. Si sciolgono, si ricompongono, si inseguono e si lasciano. Come dice George su Instagram: “Siamo come Karma Chameleon. Andiamo e veniamo. Ma in qualche modo, ci ritroviamo sempre.”