Sono passati ventotto anni dal virus. Ventotto anni da quando un’intera nazione è crollata sotto il peso della paura, della rabbia, della fame. E oggi, Danny Boyle, regista di Trainspotting e Slumdog Millionaire, ci torna dentro. Con 28 Years Later riapre la ferita e la osserva da vicino, con occhi nuovi. Ma stavolta non si tratta solo di infetti o sopravvivenza. Si tratta di cosa resta dell’umano dopo la fine.
Arrivato a Roma per la presentazione del film al cinema dal 18 giugno, Boyle ha raccontato come questa nuova incursione nell’universo apocalittico sia nata da una lunga attesa e da una domanda sospesa: come si sopravvive quando la sopravvivenza diventa abitudine? L’idea è arrivata da Alex Garland. Una storia ambientata molto tempo dopo. In un altro mondo. In un’altra Inghilterra. “È stato quel salto temporale a darci l’energia per iniziare. E volevamo che parlasse anche del nostro presente. Brexit, il ritorno del passato, l’illusione dell’ordine”.
Nel film, un ragazzino cresce in un’isola protetta da una lingua di terra e dalle regole di una comunità che guarda indietro, a un’Inghilterra immaginata, nostalgica, che divide i ruoli, separa i corpi. Un luogo che insegna ai figli a uccidere e alle figlie a restare. “Ma il ragazzo sceglie un’altra strada,”, racconta Boyle. “Si muove verso il pericolo. Sceglie il futuro”.
C’è una riflessione su cosa significa oggi l’horror. E su chi lo guarda. “All’epoca del primo film ci dissero: le donne non vanno al cinema a vedere horror. Oggi è il contrario. Sono loro che vogliono discuterne, che ne capiscono la potenza. Hanno una familiarità con la paura e con il dolore che noi uomini ignoriamo”.
Il film è il primo di una trilogia: il secondo è già stato girato, il terzo in fase di sviluppo. Ma ogni capitolo, precisa Boyle, sarà indipendente. Nessuna saga, nessuna mitologia. Solo storie. Famiglie in frantumi. Figli che resistono ai padri. “Nel primo film, Cillian Murphy e Naomi Harris diventavano una famiglia. Qui abbiamo voluto un nucleo vero, con tutte le sue crepe. La malattia della madre, la frustrazione del padre, la disillusione del figlio”.
Poi c’è il virus. Che non è più lo stesso. È mutato, come le persone. “Dopo 28 anni, nemmeno un virus può restare uguale. Gli infetti hanno imparato, cacciano in branco, hanno leader e strategie. È una forma di adattamento, come la nostra.” Un’evoluzione che nasce anche dalla memoria del Covid: le città vuote, le regole iniziali, la stanchezza che ha sostituito la paura. “All’inizio ci proteggevamo. Poi abbiamo cominciato a rischiare. Perché vivere nella paura, sempre, è impossibile”.

Boyle parla anche di tecnologia. Del modo in cui ha voluto rompere la perfezione dell’immagine. “Abbiamo usato iPhone, droni, camere leggere. Anche gli attori hanno filmato alcune scene. Volevamo qualcosa che fosse sporco, instabile. Che desse l’idea di un mondo vivo, non costruito.” Una corsa girata da Aaron Taylor-Johnson con la camera in mano è diventata una delle sequenze più potenti del film. “Impossibile da ottenere con i metodi classici. Ma quel tremolio, quella sfocatura, sono ciò che cercavamo”.
Il film è anche un ritratto politico. Parla di nazionalismo, di regressione, di nostalgia tossica. La colonna sonora include Boots di Rudyard Kipling, usata, racconta Boyle, persino dai Navy Seals come strumento di tortura sonora. “È marziale, gloriosa, ma inquietante. Proprio come l’Inghilterra che alcuni sognano”.

Sul finale, la riflessione si fa più ampia. “Oggi manca una vera leadership della resistenza. Le tecnologie non bastano. L’intelligenza artificiale ci mette davanti a nuove tensioni: tra profitto e libertà, tra informazione e manipolazione. Credo nel ruolo della BBC, perché è un’istituzione che cerca ancora la verità, senza padrone”.
E infine, il senso di tutto. “Sono ottimista. La mia malattia non è la rabbia, è la curiosità. Cerco storie, perché voglio capire il mondo. E anche se faccio film oscuri, credo ancora nella possibilità di cambiare. Di andare avanti”.