Iddu – L’ultimo padrino, terzo lungometraggio di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, arriva dopo Salvo e Sicilian Ghost Story come un lavoro di piena maturità, È il ritratto di una figura reale, Matteo Messina Denaro, ma ciò che lo definisce è soprattutto la sua assenza. Presentato in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, il film è stato selezionato anche per la rassegna Open Roads: New Italian Cinema al Lincoln Center di New York, con il titolo internazionale Sicilian Letters. Proprio le lettere – i celebri pizzini – sono il nucleo narrativo del film, ambientato nei primi anni Duemila, quando del boss non si avevano più tracce certe e si iniziava persino a dubitare della sua sopravvivenza.
Nonostante ciò, era ovunque. Ed è proprio questo a interessare Grassadonia e Piazza: non la mafia come struttura criminale, ma come sistema incorporato nel tessuto della società, sopravvissuto alla propria sparizione apparente. Iddu – “lui”, in siciliano – è il modo in cui si nomina chi non si vuole nominare, chi incute timore anche solo con l’idea della sua esistenza.
Il film prende le mosse da una vicenda reale, poi trasfigurata: la corrispondenza tra Matteo Messina Denaro, il boss scomparso per trent’anni, e Antonio Vaccarino, ex sindaco democristiano di Castelvetrano, coinvolto dai Servizi segreti nella speranza – forse vana – di arrivare al covo del latitante. Nella finzione, i loro alter ego sono Elio Germano e Toni Servillo, protagonisti di un duetto epistolare Nella finzione, i loro alter ego sono Elio Germano e Toni Servillo, protagonisti di un duetto epistolare che si muove tra l’inganno tattico e la risonanza filosofica.

“Ogni dialogo, ogni lettera – spiegano i registi – sono parole che mettono a fuoco un mondo nel quale si è smarrito il senso del vivere comune, del costruire insieme. Sono anime fantasmatiche, anime morte, che continuano ad arrovellarsi per raggiungere obiettivi privi di valore morale. È così che chiudiamo una lunga riflessione su una parte di Sicilia, portando alla luce il vuoto attorno al quale si agitano questi personaggi”.
Una riflessione che nasce anche da esperienze personali. Piazza racconta: “Il mondo in cui siamo cresciuti era oppressivo. Hai usato la parola giusta. Un mondo dove la presenza di Cosa Nostra era totalizzante. Non c’era scampo: la legge era la violenza, la possibilità di disporre della tua vita. E questa realtà era unita profondamente alla politica, all’assenza di volontà di combatterla. Era parte del sistema”.
Poi qualcosa si è incrinato. “Quel mondo è finito, lentamente, con il crollo del muro di Berlino, con la crisi dei partiti tradizionali. Hanno cominciato ad arrestare i boss. L’unico che non è mai stato preso, fino alla fine, è stato proprio lui, Matteo Messina Denaro”.
Ed è anche per questo che il film lo mette al centro. “È l’ultimo della generazione dei padrini, legato alla stagione più terribile della mafia stragista, ma è anche il primo di un nuovo mondo. Quello in cui non si distingue più tra economia legale e illegale, dove il denaro è più potente delle pallottole, e dove il mafioso non si riconosce più da come si veste o da come parla. Tutto è diventato più asettico, indistinto”.
Il film cerca di fare i conti con questo presente. “Abbiamo vissuto decenni di dittatura mafiosa con appoggi nelle istituzioni. Non dieci anni: decenni. E questo film è un tentativo di esplorare le conseguenze antropologiche di quel dominio, oggi. Cosa siamo diventati, civilmente, psicologicamente, culturalmente?”.
Per Grassadonia e Piazza, Messina Denaro era la figura che meglio incarnava il passaggio da una mafia arcaica a una forma più ambigua e mimetica. Legato alla stagione stragista, ma distante nei modi e nei codici, era colto, sociale, perfettamente integrato. Un mafioso moderno, che aveva scelto di scomparire per sopravvivere, sostenuto da una rete di protezioni diffuse nel tessuto stesso della società.
Una latitanza così lunga, osservano, non può essere spiegata solo con la complicità dei fiancheggiatori locali. “È stata possibile grazie ad appoggi ai massimi livelli: politica, massoneria, forze dell’ordine. È questo che ci interessava raccontare: non l’inseguimento, ma il contesto che lo ha reso possibile”.
E il quadro che ne esce è devastante. “Oggi siamo macerie”, dicono. “Macerie morali. La Sicilia è stata un’avanguardia in questo: un laboratorio in cui diverse forme di potere hanno trovato modi di coabitare. La famiglia Messina Denaro è stata abile nel coltivare relazioni con il potere extra-mafioso. Per noi questo film è come entrare in una Chernobyl personale, dopo l’esplosione. E provare a capire cosa resta”.
Persino la biografia di Messina Denaro, fanno notare Grassadonia e Piazza, racconta una condanna originaria. “Da bambino avrebbe potuto avere un’altra vita. Ma è cresciuto dentro un mondo patriarcale patologico, dove la legge del padre coincide con la legge della morte. Se nasci lì, è impossibile uscirne. O diventi un criminale, o muori, o scappi. Ma se scappi, non ce la fai”.