Di film su madri e figlie ne abbiamo visti tanti. Di padri e figli, anche. Ma di storie che raccontano il legame — o meglio, il vuoto — tra un padre e una figlia, così, con questo tipo di distanza e rabbia sottile, ce ne sono pochi. Paternal Leave è il film d’esordio di Alissa Jung, attrice tedesca, ex pediatra, madre, figlia, berlinese, regista ora. Non è autobiografico, dice. Ma c’è dentro tutto quello che non ha detto. Lo capisci dai dettagli, dai tagli netti tra una scena e l’altra, dal modo in cui la luce si spegne prima che arrivi una risposta.
Il film è stato presentato alla Berlinale, nella sezione Generation 14plus, e ora è arrivato anche a Open Roads: New Italian Cinema, la rassegna che ogni anno porta il nuovo cinema italiano a New York. Il 4 giugno è stato proiettato proprio lì, con un titolo che in italiano suona strano — Paternal Leave, che può voler dire “congedo di paternità”, ma anche “lascito del padre”, o ancora “abbandonare il padre”. E in effetti è quest’ultimo significato, amaro e silenzioso, a dare il tono giusto al film.
La storia è quella di una ragazza tedesca, interpretata con grazia misurata dalla debuttante Juli Grabenhenrich, che parte per l’Italia decisa a incontrare il padre biologico che non ha mai conosciuto. Lo raggiunge sulla Riviera romagnola, in inverno, tra stabilimenti balneari chiusi, sabbia gelida e luce lattiginosa. Un paesaggio che non accoglie e non respinge, ma osserva, in silenzio, come fanno i luoghi che si sono abituati all’assenza.

Il padre ha il volto ruvido e trattenuto di Luca Marinelli. È un uomo che ha scelto di sparire, e ora non sa più come tornare. Ogni gesto è esitante, ogni parola pesa troppo. Le offre ospitalità, cucina qualcosa, si siede con lei a tavola, ma l’aria tra loro è rarefatta, densa di cose non dette. Il film si muove proprio in quello spazio, tra la freddezza della realtà e il desiderio, ancora vivo, di una connessione possibile.
Jung ha raccontato che il progetto è nato quasi per caso, durante una borsa di studio, e che all’inizio non c’era alcuna intenzione di trasformarlo in un film. Voleva semplicemente scrivere, mettere ordine in qualcosa che la toccava da vicino. Il risultato, pur non essendo autobiografico, affonda le radici in un territorio personale e familiare. “Sono madre, sì, ma sono anche figlia”, ha spiegato. “E in quel momento sentivo il bisogno di raccontare cosa significa crescere con un’assenza, e poi trovare il coraggio di interrogarla, di darle un volto, magari anche un po’ di voce”.
La sceneggiatura l’ha scritta da sola, in una stanza, portando con sé ogni dettaglio, ogni incertezza. Una volta terminata, ha trovato anche il coraggio di mettersi dietro la macchina da presa. “Ho lasciato la medicina, che era la mia professione. Ho fatto la pediatra fino a sei anni fa. Ma a un certo punto ho capito che volevo raccontare storie. Che quello era il mio posto.”
Il film, come la protagonista, si muove tra due paesi. La regista vive da tredici anni tra Berlino e Roma. Conosce bene il disorientamento di chi si sente sospeso tra due culture. Laa ragazza è tedesca. Il padre è italiano. Ma più che un conflitto tra nazionalità, è uno scontro tra due idee di responsabilità: quella negata, e quella desiderata.
Il padre ha voltato le spalle, senza spiegazioni. Lei è cresciuta con un buco nella pancia, cercando un senso. Il film mette a fuoco proprio quel vuoto. ““È una figura paterna estrema, ma era necessaria per capire cosa accade quando qualcuno non è in grado di guardarsi allo specchio. Quando non riesce a essere onesto con sé stesso, e quindi nemmeno con gli altri. Allora scappa, ferisce, distrugge. Ma lo fa perché sta male”.
Paternal Leave non fa sconti. Non cerca la tenerezza facile, né la riconciliazione forzata. Ma è proprio per questo che colpisce. Nella durezza di quel padre, molti spettatori si sono riconosciuti. “Mi hanno detto: mio padre non era così, ma in quelle piccole ferite mi ci rivedo. Perché non serve un trauma gigantesco per sentire un’assenza. A volte basta un silenzio che dura troppo”.
Luca Marinelli ha accettato il ruolo solo dopo aver letto il copione. Jung non voleva che lo interpretasse solo perché sono marito e moglie. “Mi ha detto: devo capire se posso essere utile a questa storia. E quando ha detto di sì, abbiamo cominciato a lavorare insieme con grande rispetto e libertà. Abbiamo un linguaggio comune, ma ci siamo anche lasciati sorprendere”.
Si parla anche di patriarcato, sebbene in maniera indiretta. Il padre è un uomo che ha fallito come adulto prima ancora che come genitore. E la figlia, nel cercarlo, non cerca solo lui: cerca un modo per non ereditare quel fallimento. C’è anche uno sguardo sociale, nel modo in cui Jung filma i luoghi: tra spiagge vuote e paesaggi fuori stagione, emerge un’Italia stanca, marginale, lontana dalla cartolina.
Alla fine del film, non c’è una vera catarsi. Non ci sono abbracci né perdoni. Ma c’è un tentativo. E, in fondo, è già molto. “A volte basta che qualcuno ti tenga lo specchio davanti”, dice Jung. “Che ti dica: guardati. Questo sei tu”.