Una villa immersa nel silenzio, il bianco e nero che scolpisce le ombre, tre fratelli filippini che si ritrovano dopo anni di separazione. Non c’è nulla di romantico nella loro riunione: Where the Night Stands Still (Come la notte), l’ultimo film di Liryc Dela Cruz, è un racconto asciutto, spigoloso, costruito sull’assenza e sulla frattura. Presentato in anteprima alla Berlinale e il tre giugno a Open Roads a New York, è un film che non consola — scava.
«Doveva essere un altro film», racconta Dela Cruz, «ma poi è successo quello che succede sempre nella vita vera: un imprevisto. Il figlio della nostra protagonista ha preso il COVID, e tutto è cambiato. Eravamo alla stazione di Trento, ed è lì che abbiamo capito che dovevamo raccontare una storia che fosse nostra davvero».
Quella che ha preso forma non è una narrazione “classica”, e nemmeno una fiction canonica. È un gesto collettivo, nato da un gruppo di artisti e lavoratori migranti che da anni condividono un percorso. «Avevamo pochi mezzi. Io avevo la mia videocamera. Eravamo in quella villa, ospiti, dopo una performance al Mattatoio. E Crystal, mia collaboratrice, mi ha detto: Lyric, perché non giriamo qualcosa? E così è nato tutto».
Nel film, la villa ereditata dalla sorella maggiore Lilia non è un sogno realizzato, ma una gabbia. «Apparentemente è una fortuna. In realtà è una responsabilità che la costringe. Non può tornare nelle Filippine, deve restare lì a occuparsi della casa. È una prigione dorata. Come lo è, spesso, l’emigrazione: ti promette libertà, ma ti chiede in cambio tutto il tempo, tutta la vita».
Non è un caso che sia proprio il tempo a ossessionare Dela Cruz. «Per chi lavora come domestica o badante, anche la domenica è tempo rubato. I momenti di riposo diventano rare occasioni per vedere amici, familiari. Una riunione, come quella del film, è un evento straordinario. E mai pacifico. Quando ci si rivede, tornano a galla vecchie ferite, invidie, dolori».

Il personaggio del fratello, in particolare, appare divorato dalla frustrazione. È violento, rancoroso, schiacciato dal fallimento. «È un uomo spezzato. Un prodotto del sogno occidentale. Abbiamo creduto che trasferirci in Europa fosse la risposta a tutto: alle povertà, alle malattie, all’instabilità. Così abbiamo portato qui intere famiglie, pensando che bastasse trasferirsi per stare meglio. Ma non è così. Qui alcuni di noi non funzionano. E allora qualcosa si rompe dentro».
Anche Liryc ha lasciato le Filippine da giovane, ma per motivi diversi. «Ero già artista. Avevo presentato un corto a Locarno, e volevo capire di più, esplorare altri linguaggi. Sono l’unico artista della mia famiglia. Tutti gli altri vivono una vita più ordinaria. Io ero la pecora nera, il fiore selvatico. Ma avevo una domanda in testa: perché mia madre ci ha lasciati? Perché è partita per lavorare come domestica in Medio Oriente?».
Sua madre, infatti, è il punto di partenza. «Quando mio padre si è ammalato ai reni, tutto è cambiato. In Filippine non c’è sanità pubblica. Mia madre è andata a Dubai, poi in Qatar. Noi siamo rimasti. A dieci anni, facevo già tutto: cucinavo, portavo pesi, accudivo le mie sorelle. È stato allora che ho iniziato a pensare alla memoria come a una materia viva. E il corpo, il corpo della madre che non c’è, è stato sempre al centro del mio lavoro».
A Roma, Liryc ha fondato il collettivo Il Mio Filippino, un gruppo di lavoro e ricerca composto da artisti e lavoratori domestici. «Ci siamo incontrati nei corridoi delle case, nei mercati, durante le pause. Abbiamo creato performance, riflessioni coreografiche, azioni pubbliche. Il nostro obiettivo è decostruire l’immagine del filippino docile, silenzioso, obbediente. Quello che sorride e prega accanto alla famiglia italiana per cui lavora».
Una rappresentazione nata, anche, da un certo immaginario religioso. «La Chiesa cattolica ha avuto un ruolo centrale nella nostra diaspora. È stata una delle prime agenzie a portarci in Italia, legandoci alle famiglie ricche. Così è nato il “nuovo filippino”: educato, devoto, sottomesso. Ma a me interessa parlare di quello che succede dopo, quando quella maschera non basta più».
Anche in Come la notte, la religione è ovunque. Come un odore. «Nel film c’è la preghiera, la liturgia. Ma c’è anche la domanda: cosa succede quando la fede non basta più a tenerti unito alla tua famiglia? Quando l’amore che doveva salvarti ti ha spezzato?». Liryc guarda anche alla seconda e terza generazione. «Lavoro con giovani filippino-italiani. Parlano italiano, vivono qui, ma portano sulle spalle due mondi. Non vogliono più essere invisibili. E questo è bellissimo. Parlano con accento romano ma cucinano come le nonne di Manila. Sono l’incrocio che ci salverà».
Alla domanda se si senta parte del cinema italiano, Dela Cruz sorride appena, poi riflette: non si tratta, spiega, di un passaporto o di una cittadinanza formale. Questo film è nato in Italia, ha preso forma attraverso relazioni e vissuti intrecciati nel territorio. «Quando le mie colleghe mi dicono che prendersi cura degli altri è come piantare radici, sento che è vero», afferma. «La cura, per molti di noi, è diventata un gesto di appartenenza. Un modo silenzioso ma profondo di amare questo Paese».