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A Open Roads, Sara Fgaier dà forma al lutto con “Sulla terra leggeri”

Dall’amnesia al ricordo, il film attraversa sogni, rituali e diari per restituire voce a chi non c’è più

Monica StranieroLuciana CaprettibyMonica StranieroandLuciana Capretti
Sara Fgaier all’anteprima newyorkese di Sulla terra leggeri durante la rassegna Open Roads: New Italian Cinema al Film at Lincoln Center. Foto: Julie Cunnah, © 2025

Sara Fgaier all’anteprima newyorkese di Sulla terra leggeri durante la rassegna Open Roads: New Italian Cinema al Film at Lincoln Center. Foto: Julie Cunnah, © 2025

Time: 3 mins read

Presentato in anteprima il primo giugno, e in replica il quattro, al Film at Lincoln Center di New York nella rassegna Open Roads: New Italian Cinema, Weightless (Sulla Terra leggeri) è il primo lungometraggio di Sara Fgaier, montatrice e regista già nota per i suoi lavori in ambito documentaristico. Il film, che mescola finzione, archivio e materiali documentari, segue il percorso di Gian, un etnomusicologo affetto da amnesia dissociativa che, rileggendo un vecchio diario, prova a ricostruire il ricordo di Leila, la donna amata e perduta. Ma non è solo la memoria personale ad essere in gioco: Weightless è anche una riflessione sulla forma-cinema come dispositivo di resurrezione, dove i ricordi, i sogni e i riti collettivi si sovrappongono, generando una narrazione fuori dal tempo.

Il lutto e la perdita che animano il film sono frutto di un vissuto personale o piuttosto di una ricerca artistica e simbolica?

“In parte personale, ma non autobiografica. I miei genitori sono vivi, quindi la perdita che racconto è immaginata, ma nasce da un’urgenza emotiva. Tutto è cominciato alla Cineteca Sarda, durante delle ricerche per un cortometraggio. Per caso ho visto immagini del Carnevale di Bosa: mi hanno colpita, affascinanti e disturbanti al tempo stesso. Così ho deciso di filmarlo per due anni, in 16mm, con una piccola troupe. Non mi interessava l’aspetto folclorico, ma la natura rituale: un rito oscuro, che mette in scena la morte. Lì ho percepito un legame tra vivi e morti, una comunicazione con l’invisibile. Da quel punto è iniziata una ricerca più ampia sui rituali di possessione e sulle esperienze che ci fanno uscire da noi stessi—l’amore, il sogno, il lutto”.

Una scena da Sulla terra leggeri di Sara Fgaier. La memoria di un amore perduto si intreccia a visioni, sogni e rituali antichi.Courtesy: Cinecittà / Open Roads
Una scena da Sulla terra leggeri di Sara Fgaier. La memoria di un amore perduto si intreccia a visioni, sogni e rituali antichi.
Courtesy: Cinecittà / Open Roads

Come hai trasformato questa dimensione simbolica in un personaggio come Gian?

“Gian all’inizio è murato nel suo dolore. Viviamo in una società dove la morte è tabù, viene rimossa. Ma è solo accettando davvero la perdita che Gian riesce a trovare un senso, e paradossalmente, riconoscendo che Leila non c’è più, comincia a farla rivivere dentro di sé. Attraverso ciò che lei gli ha lasciato, le parole, i ricordi, lui la rende di nuovo presente. Con il montaggio abbiamo cercato di darle voce, anche se lui non ricorda davvero quella storia: è come se fosse lei, attraverso diari e immagini, a tendergli un filo per ricostruire se stesso, e così ritrovare anche la sua identità di padre”.

Hai scelto di raccontare il lutto attraverso un protagonista maschile, anziché da una prospettiva femminile più vicina alla tua. Perché questa scelta?

“Mi interessava fare un salto: raccontare la perdita da un’altra voce, un altro corpo, un’altra sensibilità. Sarebbe stato più semplice, certo, usare un punto di vista femminile, ma volevo mettermi alla prova e sperimentare una distanza. Non è stato facile, ma è stato liberatorio”.

Il lutto è un tema che ti ha coinvolta molto, anche se non lo hai vissuto direttamente. Da dove nasce questa attrazione?

“Credo che sia legata alla riflessione sulla memoria e sull’identità. Stavo ancora lavorando al progetto Gli anni, ispirato a Annie Ernaux, che racconta una donna nell’arco di 40 anni e tutte le persone che è stata. Mi sono chiesta cosa proviamo quando rileggiamo vecchi diari: spesso ci sentiamo estranei, perché siamo cambiati o perché chi ci era vicino non c’è più. E allora Weightless è anche la storia di un uomo che cerca di riconnettersi con le sue versioni passate. La perdita può essere morte, separazione, cambiamento”.

In che modo il tempo agisce su questa memoria frantumata?

“Il tempo a volte ci inchioda a un unico racconto. Restiamo bloccati su un dolore, su un’immagine. Ma quando il dolore inizia a scemare, può riemergere qualcosa che sembrava scomparso. L’idea dell’amnesia nel film nasce proprio da questo: è la distanza che permette a Gian di vedersi da fuori e di comprendersi davvero. Come un risveglio”.

L’archivio ha un ruolo centrale nel film. Non solo come fonte visiva, ma quasi come corpo vivo del racconto. Cosa rappresenta per te?

“L’archivio è il cuore del mio lavoro. L’ho sempre frequentato, anche da montatrice. Ma non lo vedo come un contenitore del passato: è un luogo dove può accadere l’imprevisto. Anche Weightless è nato da un’immagine d’archivio. Queste immagini possono generare mondi nuovi, non solo documentare. Rappresentano il flusso interiore di Gian: un uomo fuori dal tempo, attraversato da visioni. Epoche, luoghi, sogni si mescolano. In montaggio mi sono completamente abbandonata a questo flusso”.

Hai firmato ogni parte del film, dalla regia al montaggio. È stato un processo totalizzante?

“Totalmente. Non era premeditato. Pensavo di fare un documentario sul Carnevale, e invece sono stata travolta dalle immagini, dal materiale. Alla fine è nato qualcosa di molto più complesso, che ho portato avanti per anni. Nei primi film c’è spesso questo: un’energia che nasce dall’incertezza, dal non sapere ancora dove si sta andando”.

E ora, dove stai andando?

“Dopo la distribuzione e i festival, ho sentito il bisogno di staccarmi. Ho fatto il montaggio di progetti altrui per tornare a uno sguardo più distante. Ora sto scrivendo un nuovo film, più raccolto: tutto ambientato in un solo luogo, con tre figure femminili. Una viva, una fantasma, e una terza ancora da scoprire”.

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Monica Straniero

Monica Straniero

Luciana Capretti

Luciana Capretti

Nata a Tripoli, Libia, ha studiato a Roma, lavorato più di 20 anni a New York come corrispondente per varie testate giornalistiche e per la Rai, e a Roma nella redazione esteri del Tg2. Ha scritto i romanzi Ghibli (Rizzoli) e Tevere (Marsilio), il saggio La Jihad delle donne (Salerno) e il memoir Tredicesima Strada (Galaad).

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