Andrea Segre, cineasta da sempre attento alle ferite del presente e alla memoria collettiva, già autore di Io sono Li e Il sangue verde, firma con Berlinguer: La grande ambizione il suo progetto forse più audace e necessario. Un’opera che guarda al presente filtrandolo attraverso il riflesso inquieto di un passato irrisolto. Dopo aver aperto la scorsa edizione della Festa del Cinema di Roma, il film è approdato a New York, selezionato per la rassegna Open Roads: New Italian Cinema, con una proiezione il 30 maggio e una replica il 5 giugno.
Al centro, un Elio Germano intenso e dolente nei panni di un Berlinguer mai mitizzato, lontano anni luce da ogni tentazione agiografica. Segre sceglie la via meno battuta: mescola fiction e immagini d’archivio, evita tanto il biopic tradizionale quanto la nostalgia compiaciuta. Una scelta rischiosa, certo. Ma anche l’unica possibile per cercare una verità più profonda.
«Era una cosa che avevo in testa da subito», racconta il regista. «Ma sì, è vero: mi faceva paura. Quando dici che vuoi fare un film con un po’ di fiction e un po’ di archivio, il primo pensiero che viene in mente è: docufiction televisiva. E quello, spesso, è un errore. Il rischio è di finire in qualcosa di posticcio, come certe puntate di Chi l’ha visto?, con pezzi veri e ricostruzioni che non stanno insieme. Quella non è narrazione cinematografica».