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June 1, 2025
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Andrea Segre: “Con Berlinguer racconto le radici della crisi della democrazia”

Dopo la Festa del Cinema di Roma, La grande ambizione è arrivato a New York, dove è stato proiettato il 30 maggio e il 5 giugno all’interno della rassegna Open Roads

Luciana CaprettiMonica StranierobyLuciana CaprettiandMonica Straniero
Il regista Andrea Segre al red carpet di "Open Roads: New Italian Cinema" al Film at Lincoln Center di New York, dove ha presentato il suo film "Berlinguer: La grande ambizione"

Il regista Andrea Segre al red carpet di "Open Roads: New Italian Cinema" al Film at Lincoln Center di New York, dove ha presentato il suo film "Berlinguer: La grande ambizione"  Photo credit: Julie Cunnah / Film at Lincoln Center

Time: 5 mins read

Andrea Segre, cineasta da sempre attento alle ferite del presente e alla memoria collettiva, già autore di Io sono Li e Il sangue verde, firma con Berlinguer: La grande ambizione il suo progetto forse più audace e necessario. Un’opera che guarda al presente filtrandolo attraverso il riflesso inquieto di un passato irrisolto. Dopo aver aperto la scorsa edizione della Festa del Cinema di Roma, il film è approdato a New York, selezionato per la rassegna Open Roads: New Italian Cinema, con una proiezione il 30 maggio e una replica il 5 giugno.

Al centro, un Elio Germano intenso e dolente nei panni di un Berlinguer mai mitizzato, lontano anni luce da ogni tentazione agiografica. Segre sceglie la via meno battuta: mescola fiction e immagini d’archivio, evita tanto il biopic tradizionale quanto la nostalgia compiaciuta. Una scelta rischiosa, certo. Ma anche l’unica possibile per cercare una verità più profonda.

«Era una cosa che avevo in testa da subito», racconta il regista. «Ma sì, è vero: mi faceva paura. Quando dici che vuoi fare un film con un po’ di fiction e un po’ di archivio, il primo pensiero che viene in mente è: docufiction televisiva. E quello, spesso, è un errore. Il rischio è di finire in qualcosa di posticcio, come certe puntate di Chi l’ha visto?, con pezzi veri e ricostruzioni che non stanno insieme. Quella non è narrazione cinematografica».

Eppure, anche gli errori hanno la loro utilità. «Avere un errore da evitare è utile. Un fantasma. Mi ha rassicurato molto rivedere Milk, di Gus Van Sant. Lì, l’incontro tra archivio e finzione crea qualcosa di terzo, una nuova forma. Non è più solo documento, non è più solo recitazione. È cinema. E questo era il mio obiettivo».

Ma cosa rende possibile, in concreto, questo equilibrio tra realtà e messa in scena?

«Il dialogo. Quando l’archivio smette di essere illustrazione e diventa controcampo. Quando la finzione non recita sopra le immagini, ma si lascia contaminare. Il risultato, se funziona, è che anche la parte recitata perde un po’ della sua “finzione”. E l’archivio diventa poesia, diventa materia viva. È il tipo di esperimento che cerco da sempre nel mio cinema. Io sto a metà tra documentario e finzione, e mi piace stare lì. Perché c’è un confine poroso, fertile, e lì ci si può permettere di inventare nuove forme».

Berlinguer, la grande ambizione/ The Great Ambition Open Roads/Cinecittà

E Berlinguer? Perché adesso, e perché lui?

«L’idea non era fare un film su Berlinguer, ma sulla comunità che c’era intorno a lui. La sua gente. Quel mondo. È un film corale: 50 attori, 1500 comparse, tantissimi volti d’archivio. Quello che volevo raccontare era il rapporto tra la vita quotidiana e la politica in quel tempo. E da lì, provare a capire qualcosa di oggi. Perché la crisi democratica che stiamo vivendo – e che non è solo italiana – ha molto a che fare con l’assenza di partecipazione. La politica è diventata un mestiere, o un ramo dell’economia. Così la gente si è allontanata. E in quel vuoto di controllo si infilano le oligarchie».

Una dinamica che attraversa molte democrazie, ma che in Italia ha assunto contorni più drastici

«Sì. In teoria anche in Italia i parlamentari sono eletti dal territorio, c’è un contatto con gli elettori. Ma nella pratica si è trasformato in un meccanismo tecnico, quasi di club. Il senso di comunità si è perso. Quando manca un legame emotivo tra politica e vita, quando la partecipazione non è più reale, la politica diventa una macchina che si gestisce da sola. In America siete abituati a questo da tempo. Da noi no. Da noi, una volta, la politica era discussione, piazze, dibattito. E da quelle piazze sono venute fuori riforme che hanno cambiato il Paese: statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, divorzio, aborto, sanità pubblica, scuola pubblica. Tutto questo è stato possibile perché c’era un’energia collettiva fortissima».

Ma quell’energia, oggi, sembra evaporata. Quando è successo? E come?

«Con la trasformazione neoliberale. Quando la vita ha cominciato a rispecchiarsi più nei meccanismi del mercato che in quelli della politica. In Italia, Berlusconi ha capito prima di tutti che si poteva far passare l’idea del partito-azienda. “Non avete bisogno di partecipare – diceva – lo facciamo noi. Siamo bravi, ci pensiamo noi.” Era la promessa del tecnico, del manager, dell’uomo solo al comando. E la cosa grave è che ha funzionato. Ha spezzato il rapporto tra cittadinanza e politica. Poi certo, ci sono state le responsabilità della sinistra: perdita di rappresentanza, corruzione, distanza. Ma la questione non è solo politica. È culturale. La gente ha cominciato a pensare: “Perché dovrei occuparmi di politica? Ho la mia vita da mandare avanti. Devo sopravvivere. Competere. Vincere.” Questa è la logica neoliberista. E costruire comunità, in quella logica, sembra solo una perdita di tempo».

Eppure, è proprio lì che bisognerebbe ricominciare

«Esatto. Ma oggi è sempre più difficile da spiegare. L’idea di dare tempo gratuito per qualcosa che non porta vantaggio immediato sembra assurda. E invece è proprio quella cosa lì – la pressione sociale – che permette le trasformazioni. Io credo nel cinema politico. Non nel senso di cinema che fa politica. Ma nel senso di cinema che si occupa della polis. Della vita condivisa. Delle tensioni che ci attraversano. Io racconto storie di singoli, sì. Ma quei singoli parlano sempre di qualcosa di più grande. E credo anche che il cinema politico, in Italia, sia stato capace – quando era vivo – di anticipare quello che stava per succedere. Perché non insegue l’attualità. Non rincorre la cronaca. Cerca una struttura drammatica dentro la storia. E così racconta le spinte profonde. Quelle che durano».

Un titolo, su tutti?

«Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Un film che è ancora attualissimo. I grandi film politici sanno parlare del presente restando nel tempo. Raccontano qualcosa di specifico, ma trovano una dimensione universale. Come dice Beckett “fallire sempre, fallire ancora, fallire meglio”: ecco, io credo che non serve evitare il fallimento, ma fare in modo che sia ogni volta più utile, più preciso. Fallire meglio».

E guardando al mondo di oggi – guerre, conflitti, disordine – pensa di parlarne nei prossimi progetti?

«Sì. Sono temi che sto studiando. Sto decidendo se affrontarli con un documentario. Io lavoro sempre su due progetti contemporaneamente. Uno poi prende il sopravvento. Quello che mi interessa oggi è capire l’impatto della normalizzazione della guerra. Sia sugli equilibri istituzionali, sia su quelli psico-esistenziali. Come siamo tornati ad accettare che la guerra sia normale. Questa è la domanda da cui voglio partire».

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Luciana Capretti

Luciana Capretti

Nata a Tripoli, Libia, ha studiato a Roma, lavorato più di 20 anni a New York come corrispondente per varie testate giornalistiche e per la Rai, e a Roma nella redazione esteri del Tg2. Ha scritto i romanzi Ghibli (Rizzoli) e Tevere (Marsilio), il saggio La Jihad delle donne (Salerno) e il memoir Tredicesima Strada (Galaad).

Monica Straniero

Monica Straniero

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