Fin dalla sua anteprima alla 77ª edizione del Festival di Locarno, LUCE, il film diretto da Silvia Luzi e Luca Bellino, si è imposto come uno degli oggetti cinematografici più originali della recente produzione italiana. Interpretato da Marianna Fontana e accompagnato dalla voce fuori campo di Tommaso Ragno, il film è in programma ad Open Roads: New Italian Cinema, la più importante rassegna americana dedicata al cinema italiano d’autore, al Lincoln Center di New York. Prodotto da Bokeh Film e Stemal Entertainment con Rai Cinema, LUCE racconta il percorso interiore di una giovane donna, immersa in un contesto marginale e severo, dove la quotidianità è fatta di gesti minimi, fatica silenziosa e isolamento.
«È un film che mette a fuoco la tensione fra ciò che accade fuori e ciò che si agita dentro», raccontano i registi. «Un progetto nato dal desiderio di spingere il linguaggio cinematografico fino al punto in cui la realtà si confonde con l’immaginazione».
Cosa vi ha portati a scegliere un’ambientazione tanto ruvida e concreta, lontana dai cliché più familiari del Sud?
«Volevamo indagare un passaggio interiore, un momento di frattura. Il punto in cui il corpo non risponde più, si oppone. Per raccontare questa tensione, avevamo bisogno di un ambiente tangibile, duro, senza filtri. Così siamo arrivati alla fabbrica. In quella in cui abbiamo girato si inchiodano pale per l’arte, un lavoro di altissima precisione, fisico, fatto soprattutto da donne con mani piccole. Sono gesti ripetitivi, faticosi, quasi invisibili. Ma dentro ogni gesto c’è una tensione».
E come siete arrivati a Solofra?
«Non volevamo un Sud iconico, solare, folkloristico. Cercavamo un luogo chiuso, senza sbocchi, che restituisse il senso di stallo della protagonista. Solofra è una valle stretta tra le montagne, dove manca persino una linea d’orizzonte. È lo spazio ideale per riflettere lo stato mentale di Luce. Ma è anche un Sud che esiste davvero e che raramente si vede al cinema: un luogo dove si produce, dove la fatica ha un volto preciso, e dove le donne tengono in piedi interi frammenti d’industria che restano invisibili».

Il film è attraversato da un senso di oppressione, ma anche da un’urgenza di liberazione. Luce invia messaggi vocali al padre e cerca una voce. Che significato ha, per voi, questa ricerca?
«Luce si muove tra due forze che la stringono: la famiglia e il lavoro. Due forme di potere, due gabbie senza sbarre. I messaggi che manda sono come lanci in mare: non sa se verranno ascoltati, ma hanno un valore in sé. Sono la prova che non si arrende. Forse quella voce non esiste, ma serve a generare un cambiamento. È un gesto creativo, un atto di immaginazione radicale. Per noi era fondamentale non chiarire mai del tutto se quella presenza fosse reale. Conta ciò che attiva dentro di lei».
Come mai avete deciso di affidare il racconto a una figura femminile?
«Ci interessava una soglia: una giovane donna che non è più ragazza, ma non è ancora adulta. Una ragazza che non è più adolescente ma non è ancora adulta. Una fase della vita in cui tutto è incerto, tumultuoso. Qui, a femminilità non è un tema identitario ma politico. È la capacità di opporsi. E nel film Luce lo fa a modo suo, senza una vera alleanza, senza essere salvata. È lei che trova, dentro, la spinta per non rimanere dov’è».
Il vostro approccio sul set è molto particolare: scrittura in corso d’opera, attori non professionisti, riprese in sequenza. Come nasce questo metodo?
«Arriviamo dal documentario, e quel modo di guardare non lo abbiamo mai abbandonato. Ma il nostro è un movimento inverso: partiamo da una struttura narrativa molto precisa per arrivare, attraverso il lavoro sul campo, a qualcosa che risuoni come autentico. Marianna ha lavorato un mese in fabbrica, prima di girare. Gli altri interpreti sono operai veri. Tutto è reale, ma non tutto è vero. È lì che per noi il cinema prende vita: nel punto in cui la finzione diventa credibile, e la realtà si fa enigmatica».
Scrivete anche durante le riprese. È una scelta o una necessità?
«È un modo per restare in ascolto. Ogni giornata sul set è un confronto: con il luogo, con le persone, con l’umore del momento. Non vogliamo realizzare il film che avevamo in mente: vogliamo fare quello che nasce lì, sul momento. È un metodo faticoso, ma vivo».
Dopo Locarno, Roma e Linz, il film arriva a New York. Che tipo di ricezione vi aspettate dal pubblico internazionale?
«Non cerchiamo consensi facili. Ma c’è un pubblico curioso, che si avvicina a film non accomodanti, che non si appoggiano a strutture narrative convenzionali. Sean Baker è uno dei registi che ammiriamo di più: lavora con libertà e rigore, anche senza grandi mezzi. L’autorialità europea può ancora sorprendere, ma deve accettare il rischio di non piacere. A volte il pubblico americano resta spiazzato, ma anche questo per noi è un obiettivo».
In Italia si parla molto di fondi pubblici e politiche culturali. Qual è la vostra posizione?
«Il cinema trova comunque la sua strada, anche nelle crisi. Le piattaforme hanno spinto verso prodotti sempre più standardizzati, ma c’è ancora chi vuole percorrere vie alternative. È una lotta, ma la lotta porta anche idee. Scontiamo una scarsa coesione di categoria, e questo ci penalizza. Ma il cinema italiano è nato senza soldi. E continuerà a farlo. Non vogliamo raccontare storie che piacciono. Vogliamo raccontare storie che ci bruciano addosso».
State già pensando al prossimo film?
«Sì. Sarà qualcosa di molto diverso. Ogni nostro film è una discontinuità. Il Cratere, LUCE, il prossimo: cambiano i mezzi, gli spazi, i volti. Quello che resta è il desiderio di scoprire, di non sapere cosa ci aspetta. Perché se il film non cambia anche chi lo fa, che senso ha farlo?».