A Cannes, la sezione Un Certain Regard è sempre stata una terra di confine. Non solo perché accoglie opere più audaci o marginali, ma perché costringe a spostare lo sguardo. E quest’anno, più che mai, l’edizione si è aperta sotto il peso delle aspettative e dei simboli: tre attori hollywoodiani al loro debutto da registi, titoli già circondati da buzz e polemiche, e il solito interrogativo che aleggia nei corridoi del Palais: “Chi sta davvero reinventando il cinema?”. La risposta, come spesso accade, non è arrivata dai nomi in locandina, ma da chi lavorava in silenzio.
Diego Céspedes, cileno, classe 1995, ha portato a casa il premio principale con The Mysterious Gaze of the Flamingo, un film che molti, nei primi giorni del festival, non avevano nemmeno inserito nei pronostici. E invece eccolo lì, sul palco, commosso, a parlare d’amore e marginalità in una storia sospesa tra desiderio, identità e memoria, ambientata in un villaggio transgender negli anni dell’AIDS. Il titolo, bellissimo e quasi surreale, sembrava già una dichiarazione di poetica.
Il Premio della Giuria è andato invece a A Poet, opera seconda del colombiano Simón Mesa Soto, una commedia nera e amara su un insegnante di poesia disilluso e un allievo prodigio. Una storia divisa in quattro capitoli, girata in 16mm e attraversata da un umorismo sporco e disperato, che ha convinto la giuria per “l’autenticità e la sottile gestione di personaggi moralmente ambigui”. Sul palco, Mesa Soto ha dedicato il premio “a chi prova a fare arte. È un lavoro maledettamente difficile. Questo film parla anche di questo”.
Il premio per la miglior regia ai fratelli palestinesi Tarzan e Arab Nasser, per Once Upon a Time in Gaza, cronaca disperata e visionaria di due giovani spinti al limite in una terra che oggi è una ferita aperta. “Dite loro di fermare il genocidio”, ha riportato uno di loro, citando la madre rimasta a casa. È stato uno dei momenti più intensi, non solo della cerimonia, ma dell’intero festival.
Cléo Diara, interprete in I Only Rest in the Storm, ha vinto il premio per la miglior interpretazione femminile. “Se un Paese non è libero, nessuno è libero. Free Palestine”, ha dichiarato e ancora: “Alle ragazze nere: non lasciate che vi dicano che non potete farcela”. Accanto a lei, Frank Dillane ha commentato il suo riconoscimento per Urchin, un ritratto crudo e affettuoso di una Londra ai margini, diretto da Harris Dickinson, anch’egli al debutto dietro la macchina da presa. “Niente è peggio di un attore senza personaggio”.
E poi c’è stata la sorpresa di Pillion, BDSM romantico e brutale scritto e diretto da Harry Lighton. Una storia d’amore tra bikers, tra cuoio e fragilità. Il film ha vinto per la sceneggiatura, ma avrebbe meritato anche per il coraggio. Lighton ha ringraziato la comunità kink – quel mondo sommerso fatto di regole proprie, desideri fuori norma e relazioni che sfidano le convenzioni – per avergli concesso “di ridere con, e non di”. E ha aggiunto con autoironia: “Per fortuna i miei produttori mi hanno fermato quando ho proposto di ambientare tutto nell’Antica Roma”.