La prima settimana del Festival di Cannes, edizione 78, ci ha regalato un concorso dal livello complessivo decisamente alto e, cosa più importante, con alcuni sguardi nuovi e fuori dalle convenzioni, un mood molto indie/arthouse che non si respirava da un po’.
Ho apprezzato moltissimo l’impegno civile e la robustezza narrativa di due opere come Dossier 137 del francese Dominik Moll, che racconta un episodio di violenza compiuto dalla polizia durante le proteste dei gilet gialli a Parigi, e Two Persecutors dell’ucraino Sergei Loznitsa, adattamento di una pièce teatrale su un procuratore distrettuale idealista che nel 1937, durante le purghe staliniane, si scontra con l’apparato burocratico sovietico per combattere la violenza dei gulag. Due film molto solidi, che hanno in comune il racconto, in epoche differenti, di uno stato impenetrabile, di un potere che mira solo alla propria conservazione e stritola i diritti dei cittadini.

Cinema politico e connesso con i tempi che viviamo, così come connessi al nostro presente sono i tre film che sono stati, fino a questo momento, decisamente “Out of the Frame”, per rimanere coerenti con questa column.
Il primo è il tedesco Sound of Falling, diretto dalla regista Mascha Schilinski, al suo secondo lungometraggio. Un progetto ambizioso: 150 minuti per quattro storie ambientate in altrettanti decenni dell’ultimo secolo, all’interno di un casolare della regione tedesca dell’Altmark. Le quattro storie hanno come protagoniste le donne della comunità agricola e in particolare quattro giovani dal cui punto di vista osserviamo i fatti, accompagnati dalla loro voce fuori campo. I termini cronologici non sono precisi, ma possiamo dire che la prima storia è collocata a ridosso della Grande guerra, la seconda è situata a cavallo del secondo conflitto mondiale, nella terza siamo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, in piena DDR, e l’ultima storia è invece collocata ai nostri giorni. Alma, Erika, Angelika e Lenka, le quattro protagoniste, sono diverse tra loro per età, estrazione sociale ed esperienze di vita, ma tutte vivono il dramma della costruzione della propria identità di donne in una società crudele e spietatamente patriarcale.
Il film ci porta dall’una all’altra storia senza soluzione di continuità. Man mano che le storie si svelano, capiamo che le quattro vicende raccontate sono tra loro collegate non solo dall’ambientazione, ma anche da una serie di legami, alcuni di sangue, altri spirituali ed emotivi, spesso soltanto suggeriti. Non sempre la voce fuori campo, che ha la forma del flusso di coscienza, e le immagini che Fabian Gamper, direttore della fotografia, fa letteralmente danzare con la sua camera a mano, coincidono. È come se parola e corpi vivessero in due dimensioni separate, come se la memoria e la storia non coincidessero e la prima finisse per trasformare la seconda. Il casolare ha forma quadrata, un microcosmo delimitato da quattro edifici che separano la comunità dal mondo esterno. Una forma che coincide con quella del frame che Schilinski sceglie, un 4:3 che rimanda alla dimensione claustrofobica del fabbricato. Il mondo ristretto della comunità sembra però rimandare simbolicamente alla Germania dell’ultimo secolo, alla condizione delle classi subalterne e soprattutto alla condizione femminile nelle classi subalterne. Il film su questo non fa sconti, accumulando momenti crudi e strazianti, che connettono tra loro i quattro momenti storici attraverso alcune delle scene migliori. Incontriamo una cameriera sterilizzata perché, nella sua semischiavitù, non possa restare incinta, una bambina lasciata indietro dalla mamma e dalla sorella in fuga dalle violenze dei soldati russi dopo la sconfitta del Nazismo che si lascia affogare in un fiume, gli occhi del cadavere di una donna cuciti perché non vi entrino le mosche, un giovane uomo a cui viene amputata una gamba perché l’esercito non se lo porti a morire nelle trincee della Prima guerra mondiale. Il grande pregio di Sound of Falling è la messa in forma di questi elementi, che evita (quasi) ogni didascalismo e prende le coordinate di una ghost story con tratti orrorifici, in cui le corrispondenze tra le epoche e le differenti figure sembrano quasi rimandare a una dimensione sovrannaturale, come se dentro a quello spazio chiuso la storia del Novecento fosse abitata da spettri e da anime dannate, che non solo non trovano pace, ma che perseguitano le generazioni successive, impossibilitate a fare i conti il passato.
Il secondo colpo di fulmine è lo spagnolo Sirat, del giovane Oliver Laxe. Il film inizia in un rave party nel deserto del Marocco, dove Luis e il figlio Esteban di 10 anni si fanno strada tra la folla, distribuendo volantini con la foto di Mar, l’altra figlia di Luis, nella speranza che qualcuno l’abbia vista. È sparita da cinque mesi e il padre sembra non darsi pace. I due si imbattono in un gruppo di raver che suggeriscono che la ragazza possa essere a un altro evento. Spinti dalla disperazione, Luis ed Esteban li seguono attraverso il deserto da un raduno all’altro. All’inizio, i raver più esperti cercano di liberarsi di Luis ed Esteban, ma padre e figlio insistono e il gruppo forma un’improbabile compagnia, una sorta di famiglia allargata.
Sembrerebbe un Road movie convenzionale, addirittura con elementi da dramedy, e invece Sirat è uno di quei rari film che ti danno la sensazione di aver assistito a qualcosa di davvero nuovo e originale. Innanzitutto, mentre questa bizzarra carovana attraversa il deserto, il mondo sprofonda nella terza guerra mondiale, uno sfondo che dà al racconto una collocazione distopica e vagamente apocalittica. A ciò si aggiungono il sound design sbalorditivo di Laia Casanova e la colonna sonora di Kangding Ray, che riescono a far letteralmente parlare i paesaggi del deserto marocchino, minacciosi, incombenti, come se proiettassero il senso di una tragedia incombente e ineluttabile anche sulle scene più “leggere” della prima parte. E infatti, in modi davvero sorprendenti, che non spoilero, ma lasciano completamente a bocca aperta, la tragedia arriva, portando il film su traiettorie impensabili e cupe, quasi nei dintorni del mondo milleriano di Mad Max. Siamo marionette in balia di un caso che ci illudiamo di controllare, e l’ultima straordinaria scena del film, che anche in questo caso evito di raccontare, ci ricorda che il Sud del mondo è solo una questione di prospettiva e destino, e che basta un attimo perché tutto si capovolga. Il quarantaduenne regista spagnolo Oliver Laxe, tre lungometraggi all’attivo (Todos vós sodes capitáns (2010), Mimosas (2016), O que arde (2019)) firma un film scomposto, imperfetto, a tratti perfino ricattatorio, ma genuino e imprevedibile, in grado di far collidere i corpi e gli spazi in modo sorprendente e ponendosi definitivamente come uno degli sguardi più interessanti del giovane cinema europeo.

Il terzo film spiazzante non è certo una sorpresa, perché viene da un autore maturo e conosciuto come Kleber Mendonça Filho, ed è O Agente Segreto. Qui la storia è radicata negli anni ‘70 in Brasile, durante la dittatura fascista dei Gorilla. Il protagonista, un accademico di sinistra ed esperto di tecnologia, torna nel suo luogo di nascita – lo stato di Pernambuco nel nord-est del Brasile – sotto il falso nome di Marcelo. Si sta nascondendo dal governo, che gli dà la caccia perché ha mancato di rispetto a un potente industriale che ha posto fine al suo laboratorio di ricerca. Lo aiuta a nascondersi una misteriosa donna, agente di un altrettanto misteriosa associazione rivoluzionaria. Da Recife, Marcelo spera di fuggire con il suo giovane figlio, ma la città è ancora più selvaggia del solito, il carnevale è nel pieno del suo svolgimento, il numero di vittime aumenta e gli squali (sia letterali sia metaforici) stanno circondando la preda.
O Agente Secreto è uno straordinario esempio di Slow Burn Movie, che incede con passo lento e si svela poco a poco, in un costante crescendo, scoprendo nuove linee temporali e narrative, accumulando dettagli, riferimenti, giocando con i generi. Si apre con una sequenza da antologia in una stazione di servizio, dove un cadavere giace coperto di cartone a pochi metri dalle pompe di benzina, e termina con un finale indimenticabile ambientato ai giorni nostri, in cui il groviglio di linee narrative si scioglie in una celebrazione della manutenzione della memoria. Un film straordinario, dinamico, cinefilo, citazionista, che ci proietta in un mondo in cui la vita è priva di valore, quello dell’odiosa dittatura fascista brasiliana, raccontata benissimo lo scorso anno da Walter Salles in Io sono ancora qui e che nel film di Kleber Mendonça Filho ci sembra ancora più sporca, guidata da arroganti zotici e avanzi di galera. Da segnalare anche l’interpretazione sensazionale di quell’attore prodigioso che è Wagner Moura.
In attesa dei tre italiani della selezione, tutti concentrati negli ultimi giorni, due parole sui film americani. Ha rubato indubbiamente la scena Tom Cruise, l’ultimo vero divo, con il red carpet di Mission Impossible – Final Reckoning – Part 2, epilogo della saga. Grande momento glamour, con l’attore al solito disponibilissimo con fan e addetti ai lavori, a cui trasmette il suo straripante amore per il cinema al cinema. Il film è come nelle previsioni, spettacolare e divertente, degno epilogo dell’epopea di Ethan Hunt, che ci mancherà tantissimo.
Nel concorso principale, abbiamo visto per ora tre film americani, francamente tutti deludenti. Partiamo dall’ambiziosissimo Eddington, dell’ex enfant prodige Ari Aster, che dopo il pasticciaccio brutto di Beau is Afraid, alza ulteriormente l’asticella con questo pamphlet sull’America degli ultimi 5 anni. L’immaginario paese di Eddington, in New Mexico, diventa il paradigma delle divisioni e delle contraddizioni degli States: in piena pandemia, il sindaco (Pedro Pascal) e lo sceriffo (Joaquim Phoenix) iniziano una guerra destinata a degenerare, mentre crescono complottisti e movimenti come Black Lives Matter e Metoo. Il tentativo di parlare del Covid e della deriva sociale della post-verità è tanto ambizioso e giusto, quanto scivoloso. E il regista di Hereditary – che pensa di essere Delillo o Pyncheon, ma purtroppo (per lui e per noi) non lo è – scivola, soprattutto a causa della sua bulimia narrativa: vuole dire tutto su tutto, ma rimane in superficie e finisce per non dire quasi niente, in due ore e mezza che producono anche una pericolosa e reazionaria banalizzazione di ogni discorso.
Un mezzo disastro è anche Die my Love di Lynne Ramsay, con Jennifer Lopez e Robert Pattinson, che vorrebbe raccontare la depressione post partum servendosi di stilemi horror-thriller. Purtroppo, la mano di Ramsay è veramente pesante, non conosce chiaroscuri e sfumature, e il suo film è un’opera urlata e fuori misura.
Ben altra compostezza va riconosciuta a The Phoenician Scheme di Wes Anderson, che con il solito impianto high style tipico del regista texano racconta la storia di un improbabile tycoon (fantastico Benicio Del Toro). Far coincidere il proprio sguardo con quello di Wes Anderson è sempre un’esperienza appagante, anche se rispetto ad Asteroid City il suo sofisticato manierismo non sembra regalare spunti metaforici di grande suggestione. Questa storia di rinascita, perdono e riconciliazione tra un padre e una figlia, sorretto dalla consueta parata di star (c’è anche Bill Murray che fa Dio, che vale da solo qualsiasi prezzo del biglietto), regala sorrisi e ammirazione per la perfezione formale, ma è tutto talmente (e piacevolmente) prevedibile da scorrere via senza lasciare traccia.
Si entra ora nel vivo degli ultimi giorni di festival: oltre agli italiani, attesissimi in concorso Julia Ducurnau, Jafar Panahi e Bi Gan, senza contare le possibili sorprese che riservano abitualmente le ultime proiezioni qui sulla Croisette.