Non basta evocare la grande tradizione del cinema gangster per creare un’opera viva. Non basta un doppio De Niro, non basta la regia di un veterano come Barry Levinson, se ciò che si mette in scena è privo di tensione, se il film si limita a ripetere formule spente, come un rito stanco che ha perso la sua liturgia. Con meno di 9 milioni di dollari incassati nel mondo a fronte di un budget di 50 milioni, il fallimento non è solo economico ma il segnale preciso di un’industria che ha smarrito la capacità di interrogare le proprie icone, di reinventarle, di farle esplodere in qualcosa di nuovo.
Il cinema gangster è stato, per decenni, uno dei generi più fertili della storia del cinema americano. In quel mondo criminale si riflettevano le ambiguità del potere, le ossessioni dell’ascesa sociale, la violenza sistemica travestita da onore. Era un modo per raccontare l’America stessa: la sua retorica del successo, il suo tradimento, la sua identità spezzata. E Robert De Niro è stato il volto di tutto questo. Icona indiscussa del gangster cinematografico, incarnazione di un carisma oscuro che ha segnato un’epoca. Ma in The Alto Knights, anche lui sembra in trappola: la sua doppia interpretazione – Frank Costello e Vito Genovese – resta fredda, funzionale, priva di spessore emotivo. Un gesto tecnico più che drammaturgico.
Il momento chiave – il tentato omicidio di Costello, punto di rottura storico nella criminalità organizzata americana – viene mostrato subito, all’inizio, senza alcuna progressione, senza accumulo emotivo. Il resto del film si disperde in salti temporali e sottotrame che non costruiscono tensione ma solo disorientamento. Il risultato è un film che rappresenta il crimine senza conoscerlo, lo riduce a maschera, a museo. Ma il crimine, nel cinema, non è mai stato un fatto: è sempre stato una metafora.
Il problema, però, non è solo narrativo o stilistico. È più profondo: The Alto Knights è un film privo di visione. Non interroga il mito, non dialoga con il presente, non cerca attrito tra immaginario e realtà. Opere così – troppo costose per osare davvero, troppo prudenti per lasciare traccia – oggi risultano fuori tempo. Le major non sanno più come svilupparle né come sostenerle, e il pubblico, che ormai riconosce al primo sguardo ciò che è vuoto e prefabbricato, reagisce con indifferenza. Il rifiuto è immediato.