Dopo aver interpretato Michelle Obama in The First Lady e una guerriera amazzone in The Woman King, Viola Davis – premio Oscar come miglior attrice non protagonista nel 2017 per Barriere, diretto da Denzel Washington – si cala in un ruolo che fino a ieri sembrava riservato solo a figure come Harrison Ford o Gerard Butler: il capo che guida e agisce in prima linea. In G20, in uscita su Prime Video il 10 aprile, intrepreta Danielle Sutton, presidente degli Stati Uniti e madre di due adolescenti – una ribelle, l’altro più docile – sposata con un “first husband” affettuoso e, in fondo, rassegnato al fatto che il potere, in famiglia, lo detiene qualcun altro. Durante un summit in Sudafrica, un gruppo armato prende il controllo della sede e sequestra tutti i capi di Stato. Tutti, tranne lei. A prima vista, la trama richiama quella di un classico film d’azione con crisi diplomatica annessa. Ma al posto del solito presidente paternalista, troviamo una donna capace di negoziare, combattere, disinnescare armi e – nei rari momenti di tregua – discutere di politica economica con la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, interpretata da una Sabrina Impacciatore, tecnocrate nervosa ma coraggiosa.
Durante la conferenza stampa internazionale di presentazione del film, Davis ha raccontato di aver girato buona parte delle scene d’azione senza controfigura. Alcune sono nate sul momento, improvvisando con quello che c’era a disposizione: un ascensore, una lavanderia automatica, una maniglia. Niente coreografie spettacolari, ma gesti concreti, spesso istintivi. “Mi chiedevo: cosa farei davvero se fossi bloccata lì dentro? Cosa potrei usare per difendermi?”. La fisicità, più che esibita, è trattata come una questione di sopravvivenza.

Il progetto le offriva qualcosa di diverso, lontano dai ruoli a cui era abituata. “Mi piaceva l’idea di un film che potesse funzionare anche solo come intrattenimento”, ha spiegato. “Ma volevo che sotto la superficie ci fosse altro: una riflessione su ciò che si perde quando si sceglie di avere una posizione di responsabilità”.
La regista Patricia Riggen – già dietro The 33 (2015), il film che raccontava la vicenda dei minatori cileni intrappolati per 69 giorni – ha voluto rappresentare una forma di leadership “imperfetta, affettiva, umana”. Ed è forse proprio questo l’aspetto più interessante di G20: il fatto che una presidente donna, afroamericana, non debba giustificare in continuazione la propria presenza al comando. Non perché sia realistico (non lo è), ma perché mette in discussione l’idea che il potere femminile debba sempre essere spiegato, difeso, giustificato. Danielle Sutton è lì, prende decisioni, si espone, e nessuno le chiede se è abbastanza dura, empatica, controllata. Un modo di intendere l’autorità in cui anche la sensibilità non ha bisogno di essere mascherata. “C’è la convinzione che in certi film non ci sia posto per i sentimenti”, ha sottolineato l’attrice. “Ma io credo che possano stare anche in una porta che si apre, in un oggetto afferrato al volo per difendersi. Basta saperli vedere”.
È un principio che attraversa tutto il film, e che si riflette nel modo in cui Davis costruisce il suo personaggio. In G20 non non rincorre modelli maschili, non si affida a slogan, non si fa portavoce di una crociata ideologica. Corre, spara, sbaglia, si rialza, e poi – forse – torna a casa, dove l’attende una discussione con la figlia per un’insufficienza in matematica. Non è una rivoluzione, ma uno spostamento nell’immaginario sì – discreto, silenzioso, ma capace di lasciare traccia. E a volte, è già moltissimo.