Solitamente i film sullo sport si ispirano a narrazioni dove la sconfitta risulta più intrigante della vittoria. Racconti che portano con sé quel senso di nostalgia e malinconia tipici di una pratica dove oggi rispetto al passato lo spirito di competizione, il divertimento, il benessere, sono stati surclassati dall’alta prestazione a tutti i costi.
Altre volte accade che chi si cimenta nel discorso, finisca per cedere alla tentazione di restituire un ritratto agiografico del personaggio sportivo o di immortalarne le oscurità dietro le prodezze e i numeri da campione. Non succede con Sandro Gamba, giocatore ed allenatore dei migliori anni del basket italiano, protagonista del documentario Un coach come padre, che approda all’Istituto Italiano di Cultura di New York giovedì 21 marzo, dopo i passaggi a Miami e all’Ambasciata d’Italia a Washington DC.

Una storia lunga novant’anni di chi è arrivato al basket per caso. Il 25 aprile del 1945, Gamba viene colpito alla mano destra da una raffica di mitra in uno scontro a fuoco tra fascisti e partigiani. Fin da subito si rende conto che era già ora di battersi con il destino. “Quella mano ferita se da un lato rappresenta la violenza e la guerra, nel tempo lascerà spazio all’amore per il gioco” ci spiega il regista Massimiliano Finazzer Flory che presenterà il film all’Istituto. “Nel basket, il gioco stesso diventa un atto di fede nel cielo, nell’elevazione… Ogni pallone segnato diventa un pianeta che si aggiunge all’universo”.
C’era Gamba all’inizio degli anni ‘50, quando in un’Italia che tenta faticosamente di lasciarsi alle spalle le miserie del passato, un allenatore nero arriva dagli Stati Uniti per insegnare ad una nazione intera “i fondamentali” del basket. Una favola di libertà in un paese che è appena uscito da uno dei periodo più bui della sua storia.
Il film è minimalista ed intimo nel suo approccio. Dal bianco e nero delle prime partite con Cesare Rubini, suo mentore, alle immagini a colori delle vittorie da giocatore con il Simmenthal e con la Nazionale a quelle da allenatore. Gamba si spinge oltre i confini nazionali, viaggia più volte negli Stati Uniti per imparare tattiche e metodi di allenamento dei grandi coach americani. “Io non ho inventato nulla”, dice nel documentario. “Una volta il gioco era una battaglia colpo su colpo in ogni zona del campo. E io avevo un solo comandamento: vincere”. Il racconto si arricchisce con le testimonianze di alcuni dei suoi giocatori. Da loro Gamba pretendeva il “lei”, ad insegnarci che dovremmo essere più cauti nell’offrire confidenza.
Lo vediamo animarsi quando parla di Dino Meneghin. Colui che è ancora considerato all’unanimità come il più grande giocatore italiano rivela che per lui Gamba non è stato solo un coach, ma anche un fratello maggiore. “Un allenatore fuori dagli schemi capace di amalgamare non solo campioni ma anche uomini con dei valori che sembrano ormai persi nello sport di oggi”, ci ricorda Finazzer Flory. “Per loro il coach non era autoritario ma una figura autorevole al pari di un padre non biologico che gli ha insegnato non solo a giocare a basket, ma anche a vivere”.
Il resto, naturalmente, è noto a chiunque segua il basket. Come coach della Nazionale italiana Gamba ha conquistato la prima medaglia olimpica del basket italiano vincendo un argento contro una fortissima Jugoslavia a Mosca, nel 1980. Jugoslavia che avrebbe battuto tre anni dopo, agli Europei di Nantes in una partita passata alla storia per una rissa in campo un giocatore avversario che rientra in campo brandendo un paio di forbici quasi a volersi fare giustizia da solo.
Sandro Gamba, Cesare Rubini e Dino Meneghin sono gli unici italiani ad essere stati ammessi alla Hall of Fame di Springfield. Anni d’oro del basket nostrano che fanno inevitabilmente venire un filo di nostalgia per storie che sembrano irripetibili. “Le leggende italiane sarebbero state impossibili senza quelle americane”, spiega Finazzer Flory, “questo perché il ventesimo secolo è stato il secolo degli Usa e la loro potenza si rifletteva anche nel basket come campo da gioco di chi crede nel vincere o perdere. Non c’ era mediazione come in Europa”.
Gamba si racconta lungo tutto il documentario. E lo fa davanti ad un gruppo di ragazzi di ogni etnia che giocano su un campetto di via Washington, nella periferia milanese, dove abitava da piccolo. Finazzer Flory aggiunge: “Lo sport è per sua natura inclusione e cittadinanza. Il campo da gioco diventa un luogo di convivenza che unisce persone senza le naturali distinzione di lingua e identità culturale, di razza e religione, genere o status socioeconomico. Il basket è lo sport più globale che al pari della politica può realmente fornire gli strumenti per risolvere ogni conflitto sociale”.
Il tutto vive di un’equilibrata coesione tra presente e passato che vuole proprio essere funzionale a creare un dialogo con le future generazioni. Il documentario, come spiega infine il regista, è concepito come un lascito per i giovani che hanno bisogno di modelli positivi a cui ispirarsi. “Perché lo sport non è solo un gioco ma metafora della vita quotidiana che insegna a perseguire le nostre passioni con onestà e rispetto per gli altri”.