L’esodo tragico di un popolo non è iniziato oggi. “Non è iniziato tutto il 7 ottobre” dice il regista Yousry Nasrallah nel presentare il suo film, La porta del sole, Bab el Chams, al Festival del cinema mediterraneo a Roma. “Vi auguro di goderne la visione, se si può godere di questa visione” aggiunge. No, godere non è proprio la parola giusta per un film che è il primo racconto cinematografico della Nakba, la terribile cacciata dei palestinesi dalle loro case, dai loro villaggi, la resistenza dei combattenti palestinesi, le peregrinazioni di un popolo stremato, senza cibo, acqua, a marce forzate verso i vicini paesi arabi, la guerra civile in Libano, fino agli accordi di Oslo. C’è tanto ne La porta del sole, tanto da farne una epopea di 4 ore e mezza originariamente divisa in due parti La partenza e Il ritorno e presentata per la prima volta al festival di Cannes nel 2004. Accolto come un capolavoro del cinema mediorientale il film non è poi stato distribuito su vasta scala ed è finito nell’oblio. Ora il festival di Locarno lo ha riesumato, restaurato e presentato, in attesa di una distribuzione internazionale.
Adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Elias Khoury, scrittore e giornalista libanese che ha cofirmato la sceneggiatura, il film si svolge come un racconto nel racconto. Khalil, come un nuovo Sheherazade, vuole tenere in vita il padre adottivo Younès narrandogli le sue gesta eroiche durante la resistenza palestinese, il suo amore a distanza con la bella ed eroica Nahila. E poi la sua storia, di neonato abbandonato dalla madre durante la fuga, di fedayn, del suo amore per la traditrice e assassina Chams. Narrazioni che si intrecciano in un andirivieni complesso di passato e presente ugualmente doloroso e violento. Nel film la violenza se non è esplicita, è comunque in agguato.
Yousry Nasrallah, regista egiziano, amico, collaboratore ed erede di Youssef Chahine, all’inizio questo film non voleva farlo. Perché proprio lui, egiziano, quando poteva realizzarlo un regista palestinese? Alla fine ha ceduto alle insistenze della produzione francese Arte e ha cominciato a studiare e a scrivere con Khoury e Mohamed Soueid, sceneggiatore e regista. E 50 anni di storia palestinese e 630 pagine di romanzo sono stati condensati ne La porta del sole.
Il film inizia con un vecchio Younès Ibrahim el-Assadi, in coma su un letto di ospedale a Beirut e un dottor Khalil, che di dottore ha poco, che lo assiste mentre si nasconde dall’OLP perché ricercato per complicità nell’omicidio di un altro palestinese. Khalil racconta di Younès adolescente che in Galilea lotta contro gli inglesi nel ’43, del suo matrimonio con Nahila bambina a Ain El Zeitoun, e la Nakba nel ‘48 con un popolo di contadini e pastori cacciati dalle loro case, gli uomini uccisi dalle brigate ebraiche. Il film è molto efficace in questa prima parte in cui mostra villaggi bruciati, popolazione in fuga con l’altoparlante della Palmach che urla “ammazzeremo i vostri uomini, violenteremo le vostre donne, questa zona è ora vietata agli arabi!” Nemici sono i combattenti ebrei, ma nemici sono anche gli altri paesi arabi che abbandonano i palestinesi al loro destino. La Arab Rescue Army ha ordini di non interferire con l’invasione. Possiamo usare le vostre armi per difenderci? chiedono gli abitanti del villaggio disperati. Non abbiamo ordini in questo senso, risponde il comandante, limitandosi a fare lucidare gli inutili cannoni.

Alla fine parte della popolazione andrà in esilio in Libano, parte rimarrà nei campi. Avranno perso tutto, si arrangeranno a sopravvivere, come Nahila, la sposa bambina di Jounès, diventata nel frattempo adulta e coraggiosa. Lui la raggiunge di nascosto, di notte, quando può, a distanza di mesi, anni, lei lo accoglie in una caverna segreta, bab el chams, la porta del sole, fra petali di fiori e grappoli di uva. Fanno l’amore, lei rimane regolarmente incinta. Dov’è Younès? le chiede la polizia ebraica, non lo so ripete lei ostinatamente, e allora con chi li hai fatti questi figli? sono una sharmuta risponde lei schernendoli, una prostituta. Ed è lei il vero fulcro del film, lei che alla fine dice a lui: ti ho ascoltato sempre, le tue gesta eroiche, ora tu ascolti me. Tu sei andato sulle montagne a combattere, ma io ho combattuto qui, ho sfamato i figli, li ho cresciuti, ho curato i tuoi genitori, ho affrontato la polizia. Gli ho detto: voi ebrei avete sofferto molto, lo so, ma ora state facendo soffrire noi altrettanto. Nahila è la resistenza femminile, i suoi figli sono la generazione che cerca di lavorare con gli ebrei, con gli israeliani, cerca di trovare un modo per convivere.
Il film nella seconda parte diventa confuso, più violento nella follia della guerra civile libanese. Gli accordi di Oslo sono sul punto di essere completati ma i palestinesi non credono che siano risolutivi. Il vostro è stato un tempo di eroismo, dice Khalil a Younès incosciente, il nostro ne ha una disperata mancanza.
“Non volevo fare un film in cui gli israeliani sono i nazisti e i palestinesi gli ebrei – ha spiegato il regista – Ma non arriveremo alla pace finché non ci sarà accettazione e conoscenza di quello che è veramente successo.”