Era il 1963. Due pellicole italiane uscite in contemporanea, dirette da registi che per temperamento e cultura più diversi non potevano essere, affascinarono il pubblico per la loro straordinaria bellezza. Il Gattopardo di Luchino Visconti vinse la palma d’oro a Cannes, Otto e mezzo di Fellini conquistò l’Oscar. Il rigore assolutista dell’uno contrapposto alla confusione organizzata dell’altro: secondo il giudizio di Martin Scorsese i due film figurano tra i primi dieci della storia del cinema. L’aristocratico rosso milanese aveva allora 56 anni; il visionario romagnolo 13 anni di meno. Dietro la facciata dei sorrisi, la rivalità era fortissima. A farne in un certo modo le spese fu Claudia Cardinale, che recitava in entrambi i film: per Visconti lei era senza discussioni la bruna Angelica, Fellini la voleva invece con i capelli castano chiaro. Due geni dispotici, inflessibili e dispettosi. E così CC – in quell’epoca i grandi personaggi venivano identificati dai giornali con una sigla: Marilyn era semplicemente MM, la Bardot diventò BB, HH stava per Helenio Herrera – saltava da un set all’altro, costretta di volta in volta alla tinta della parrucchiera prima di girare.
Il cinema dei capolavori era anche questo: arte e baraccone mescolati assieme. E ogni lieto fine non era mai completamente tale. Visconti aveva esigenze costosissime e Il Gattopardo non rese al botteghino quanto avrebbe dovuto per ammortizzare le spese: i tagli selvaggi della distribuzione americana al montaggio vanificarono il lancio centrato su Burt Lancaster, alias Principe di Salina. Di conseguenza i mancati incassi provocarono il fallimento della gloriosa Titanus di Goffredo Lombardo, la più antica casa di produzione italiana. Quanto a Otto e mezzo, il viaggio che portò gli autori a Los Angeles per la notte delle statuine provocò la rottura irreparabile tra Fellini ed Ennio Flaiano: il regista aveva un biglietto aereo di prima classe, allo sceneggiatore fu assegnato un posto in classe turistica. Litigio, rancore e fine della collaborazione.
Sessant’anni dopo, ecco aperta la Mostra di Venezia con sei film italiani in concorso. Vetrina scintillante e una pattuglia eterogenea senza punta di diamante: De Angelis, Garrone, Sollima, Pietro Castellitto, Costanzo e Diritti presentano storie che hanno poco in comune fra loro e questo è sicuramente motivo di interesse. Non che si pensi solo ai premi, ma a volte questi arrivano quando non sei favorito e viceversa: brucia ancora la delusione di Cannes 2015, con il tris d’assi Moretti-Sorrentino-Garrone rimasto clamorosamente a mani vuote. All’opposto, sempre sulla croisette ma nel ’72, per la prima e unica volta nella storia del festival la palma venne spartita ex aequo fra due film della stessa nazione: Il caso Mattei di Francesco Rosi e La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, che si erano divisi anche il protagonista Gian Maria Volonté.
Altri tempi, altri registi, altre rivalità – pensiamo a Bertolucci e Pasolini -, altri attori. Soprattutto altri sceneggiatori. La base di una pellicola non prescindeva da una regola aurea, riassunta perfettamente da Alfred Hitchcock: <Per fare un buon film servono tre cose: il copione, il copione e il copione>. Gli italiani avevano in squadra i migliori. Nomi che mettono i brividi: Zavattini, Brancati, lo stesso Flaiano in tandem con Tullio Pinelli, Rodolfo Sonego, Sergio Amidei, Tonino Guerra, Suso Cecchi D’Amico, Ugo Pirro, Age e Scarpelli, Franco Solinas, Brunello Rondi, Vincenzo Cerami… Il nostro cinema attuale segue i dettami della tradizione, talvolta con risultati di assoluto rilievo. Eppure è il panorama generale a essere cambiato. Se sul red carpet del Lido mancheranno le star a stelle e strisce è perché da più di quattro mesi gli sceneggiatori di Hollywood affrontano una vertenza durissima: scioperano contro i produttori che vogliono sostituirli con l’intelligenza artificiale, dimostrando una stupidità naturale. Non è tanto e solo la lotta per il posto di lavoro: si tratta di difendere un artigianato di alta qualità che ha reso unica la settima arte. Ecco perché il punto di riferimento a fianco dei nuovi talenti che spuntano ovunque – messicani, coreani, cinesi, iraniani eccetera eccetera – rimangono i vecchi maestri. Tre sono a Venezia: Woody Allen, Roman Polanski e Liliana Cavani, leone d’oro alla carriera. Tre splendidi novantenni. E pochi mesi fa è salito in cattedra a Cannes Marco Bellocchio, 83 anni, che con il suo Rapito ha raccolto un quarto d’ora di applausi.
Intendiamoci, siano benvenute le contaminazioni. Evitiamo i facili pregiudizi considerando piuttosto l’idea di fondo: il film rosa Barbie e un film che è già culto come Oppenheimer affrontano – in maniera diametralmente opposta, certo – lo stesso tema, ovvero il pensiero della morte. Per questo incuriosiscono e attirano, curiosità, perché oltre la formula espressiva vale il contenuto. E il pubblico è ora più che mai chiamato a una scelta responsabile. E’ un peccato grave se The Fabelmans ha portato a casa zero Oscar contro i sette di un prodotto discutibile come Everything everywhere all at once. Lo spettatore che paga il biglietto decreta il successo di un’opera: la storia autobiografica di Spielberg ha incassato 45 milioni di dollari contro i 40 spesi, peggior risultato di sempre al botteghino per il regista americano. Il motivo? <Ci aspettavamo gli effetti speciali e i colpi di scena alla Indiana Jones, siamo rimasti delusi>, è la risposta standard. Senza effetti speciali c’è poca gente nella sala buia. Il cinema si vede sempre meno al cinema: c’è la televisione, c’è Netflix, c’è il tablet, c’è il telefonino, preferisco starmene a casa sul divano con la pizza e una Coca. Va bene così?