“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”. “Dove andiamo?”. “Non lo so, ma dobbiamo andare”. Era il 1951. Jack Kerouac partì con l’amico Neal Cassady attraversando gli Stati Uniti su una macchina scassata, facendo l’autostop o a bordo dei pullman Greyhound. Si riempì gli occhi degli spazi infiniti costa a costa, il West, la frontiera dei pionieri. Parlò con la gente. Annotò il vuoto delle esistenze, l’angoscia del sottoproletariato. Cancellò con un tratto di penna l’American dream. Da quell’esperienza nacque il romanzo-manifesto della Beat generation: On the road, il viaggio metafora della vita. Mezzo secolo più tardi, i registi Francesco Conversano e Nene Grignaffini hanno percorso le stesse e le altre strade del mito a stelle e strisce, documentate nel loro cinema del reale. Durante gli intervalli delle riprese per la Rai, fra il 1999 e il 2017, Conversano ha fatto centinaia di foto: “La macchina da presa è sequenza in movimento, quella fotografica fissa l’immagine, assieme costruiscono uno sguardo”, spiega. Gli scatti sono rimasti in un cassetto a lungo, finché li ha tirati fuori.

em>Lungo le Strade blu – Along the Blue Highways è il titolo della mostra alla Fondazione Cirulli fino al 25 maggio. Mosaico ricomposto nella factory del design progettata dai fratelli Castiglioni per Dino Gavina a San Lazzaro di Savena, anticamera di Bologna sull’altrettanto leggendaria Via Emilia: la Strada Nove costruita dai romani che collega Rimini a Piacenza, “magica e paurosa” nel poderoso reportage del giornalista e scrittore Carlo Donati. A ciascuno i suoi rettilinei e le sue curve, le domande sono identiche: chi sono e che cosa ci faccio qui? Luoghi e volti raccontati nelle foto in bianco e nero di Conversano rappresentano lo specchio di un continente – la small town America profonda – molto più grande delle sue metropoli, montagne e pianure desolate anziché grattacieli brulicanti.

Le facce che abitano la provincia remota sono ritratti memorabili. Ecco l’operaio di Atomic City, Idaho, 29 abitanti, un non-luogo falcidiato dalle perdite radioattive. Ecco le unghie luride di James Cain, pescatore di ostriche che stringe un mozzicone fra le dita adunche. C’è Duke Van MiIddlesworth, falegname: una fascia con i colori della bandiera sulla fronte lega i lunghi capelli grigi. C’è l’immigrato senegalese al confine con il Messico, cerca il futuro che non sarà mai felice. I borghesi sono diversi, hanno l’aria di chi non ha fretta. In veranda, nella villetta, mister Nicholas Roscetti adagiato sulla sedia di vimini accarezza un bicchiere a fine giornata. La signora Georgia Sinclair, nella poltrona accanto al caminetto, pensa forse alle cose perdute. Mike Allison, rappresentante delle Onoranze funebri Hurley, è in posa orgoglioso davanti a una lussuosa bara.

Poi ci sono quelli che ti aspetti, come te li aspetti: il proprietario terriero Cornelius Murphy e il suo cappello da cowboy, il giudice della contea, il sindaco di campagna col forcone, il barbiere, il negoziante di armi. E’ c’è perfino un volto divenuto celebre suo malgrado. Appartiene a Jim Leavelle, agente della polizia di Dallas. Tiene in mano una foto in cornice datata 24 novembre 1963: l’istantanea scattata nel momento in cui Jack Ruby spara a Lee Oswald, l’assassino del presidente Kennedy. L’uomo in divisa accanto a Oswald è proprio lui, il detective, testimone oculare della Storia e comprimario di un mistero insoluto.

La mostra è un’avventura in cinque puntate e undici Stati. L’itinerario inizia nel Sud, a New Orleans in compagnia di Barry Gifford, sceneggiatore del Cuore Selvaggio di David Lynch. Prosegue lungo il muro tra Messico e Arizona. Torna nel Midwest di Spoon River per il centenario dell’Antologia di Lee Masters. Segue le tracce di Jfk dalle estati felici a Hyannis Port fino al tragico epilogo. Chilometri e chilometri: Iowa, Michigan, Montana, Illinois, Idaho, Florida, Oklahoma, New Mexico, California, Nevada e Wyoming percorsi sulle strade secondarie dell’America rurale, tracciate appunto in blu sulle carte automobilistiche Rand McNally. Il boom dell’Atlante, pubblicato nel ’24, era coinciso con l’accelerazione della motorizzazione Usa nel 1950, rendendo necessari aggiornamenti annuali che resistono a Google Map.
Con il Rand McNally sul sedile, l’insegnante William Least Heat-Moon nel 1978 prende il furgone e vaga per tredicimila miglia toccando le comunità isolate, i villaggi sperduti, i borghi dimenticati. Incontra tipi eterogenei e rassegnati, ma con una motivazione interiore: essere qualcuno, da qualche altra parte. Infila il materiale raccolto nel libro Blue Highways: a journey into America che diventa un best seller alla Bruce Chatwin. “Anche il nostro è stato un viaggio sentimentale, sociologico e letterario”, dice Conversano. Le foto frugano nella materia oscura, estraggono il cuore di tenebra da un’umanità ostinata, razzista, bigotta e radicalizzata. Terroni dell’Impero, li definisce il saggista e sociologo Marco D’Eramo, ennesimo esploratore in cammino sulle strade blu. Perché le persone vivono in quei posti? E come sono quei posti?

Silos abbandonati, binari morti, panni stesi, solitudine ai confini della realtà: tutto immobile e senza tempo come in un quadro di Edward Hopper. Il cartello del Drive-in a Galesburg, Illinois, è fermo alla campagna elettorale del 2008 e recita: Obama wins. Uguali appaiono le stazioni di servizio di giorno (Amargosa Valley, il deserto tra Nevada e California) e di notte (Parkesburg, Iowa, prima del tornado). Una freccia indica: Adult Entertainment. Il Motel Apalachicola Bay, Florida, è una scritta a caratteri cubitali poggiata sul niente, lembo di erbacce che sporge dalla laguna al crepuscolo. La vetrina dei vestiti usati a Macomb, Michigan, ha luci spettrali puntate su manichini senza testa. Il deserto di Zabriskie Point, parco nazionale della Death Valley, è una terra cattiva e salata dove nulla cresce come nel film di Antonioni. E dal viottolo nel distretto minerario di Rimini, Montana, spuntano quattro cassette delle lettere. Una porta i nomi Jura e Vaughn: chissà se laggiù cercavano l’argento e se l’hanno trovato. Non lo sapremo mai, in fondo è meglio così.