“Sono contenta perché vi ricordate ancora di me. Io continuo a vivere perché ci siete voi”, ha ringraziato dolcemente la regina della festa. Sono arrivati in tanti a farle gli auguri di un compleanno tondo tondo: professori, ex allievi, familiari, amici di lungo corso. Stretti attorno a lei, quella ragazza specialissima nata giusto un secolo fa.
Nome e cognome non hanno bisogno di preamboli: Mina Gregori è la leggenda pluridecorata della critica d’arte italiana. Docente emerita all’università di Firenze, dove è stata ordinaria di Storia dell’arte moderna. Presidente onoraria della Fondazione intitolata a Roberto Longhi, suo nume tutelare. Cattedra alla National Gallery of Art di Washington. Membro dell’ Accademia dei Lincei. Cavaliere di Gran Croce della Repubblica. Insignita della Légion d’honneur francese. Regista di centinaia di mostre in Italia e all’estero. Che dire di più? Cremonese di nascita il 7 marzo 1924, bolognese per laurea, fiorentina d’elezione, ha segnato la storia della cultura del Novecento e oltre. Con una stella polare: riconoscere, amare e diffondere la bellezza della pittura, cioè il suo ambiente naturale, ma anche nella musica e in letteratura.
L’hanno definita la migliore amica di Caravaggio ed è vero. Lo è fin da quando, giovanissima, curò le schede per la memorabile retrospettiva – intitolata al genio lombardo e ai suoi seguaci – nelle sale del Palazzo Reale a Milano, anno di grazia 1951. Fu un punto di svolta per la critica: la riscoperta di un autore eccezionale, diverso da tutti gli altri, ripulito dallo stereotipo di artista maledetto. Semmai benedetto, un dono di Dio all’umanità. “La pittura moderna comincia con lui”, dice la sua maggiore esperta. Ne ha cercato le tracce ovunque, a caccia di quel tratto irripetibile, l’ombra e la luce studiate allo sfinimento. “Se hai appreso come un pittore muoveva il pennello sulla tela, allora lo riconosci”, è l’orma seguita dal segugio. Postilla: non guardare il nome dell’artista prima di aver tentato di capire chi è. Le è successo l’ultima volta dieci anni fa, quando Mina ha incontrato la Maddalena in estasi ritratta nel 1606, perduta e ritrovata dopo quattro secoli tra i quadri di una collezione privata inglese. “Finalmente, è lei”, esclamò subito. “Il dipinto era appoggiato al pavimento, mi inginocchiai per vederlo meglio. A ripensarci fu quasi un atto di devozione. Quell’immagine mi emozionò come mai prima. La testa reclinata, le labbra socchiuse, la lacrima, le sfumature dell’incarnato. Le mani con le dita intrecciate che sono l’elemento distintivo. Forza ed equilibrio: non poteva essere altri se non Caravaggio. La Maddalena originale che aveva ispirato le otto copie conosciute fino a quel momento”.

Intuito, certo. Ma il colpo d’occhio è figlio della preparazione e della memoria. Oltreché dell’ottava virtù: la curiosità. “Ho sviluppato in famiglia – spiega – la predisposizione alla cultura. Da piccola facevo raccolta di chiavi antiche, così ogni volta che la nonna materna saliva in soffitta le correvo dietro nella speranza di trovare qualcosa d’importante. Se fra scatoloni e bauli saltava fuori una cornice, chiedevo: è antica? Lei rispondeva: è noiosa e vecchia. E io: allora questa è mia”. Al di là dei cromosomi, c’è la formazione ricevuta dai genitori. “Mio padre era ingegnere, un uomo di grande levatura intellettuale. Mi ha trasmesso il suo modo di intendere la vita: la sera facevamo tardi giocando a scopone scientifico, dopo la morte di mia madre. Ho preso il gusto per l’arte da lei, discendente di una illustre famiglia cremonese. La zia pianista ha fatto il resto: suonavo otto ore al giorno, da Bach a Chopin. La musica coinvolge corpo e anima in una dimensione unica, mentre le arti figurative sollecitano il cervello”.
Non sarebbe diventata però una concertista, l’adolescente Gregori. Dopo il liceo l’aspettavano la Toscana e un professore molto particolare. “Sapevo che Roberto Longhi, il maestro, abitava in collina però aveva la cattedra a Bologna. Decisi di lasciare Firenze per seguirne i seminari, ma prima volevo parlargli. Da perfetta incosciente trovai il suo numero, telefonai, poi saltai sulla bici di un’amica e andai a casa sua: senza timore reverenziale, e questo gli piacque. In autunno iniziarono i corsi: aveva un linguaggio elegante e raffinato che corrispondeva alla sua scrittura. Essere accettata come allieva è stato un privilegio, qualcosa di grande”. Non fu comunque facile, al di là della stima e dell’enorme rispetto. “Longhi – rievoca – faceva lezione di primo pomeriggio. Io vivevo a Cremona, mi alzavo prestissimo per prendere il treno e scendevo a Modena o a Parma: visitavo i musei, una sala al giorno, prendendo appunti per memorizzare le opere. Poi ripartivo, arrivavo a Bologna e scoprivo invariabilmente che Longhi non era in ateneo. Veniva quando gli pareva. Era così faticoso che un giorno lo affrontai: non mi vedrà più ai corsi, gli dissi dura. Lui, personaggio riverito e temuto, rimase stupefatto. Ma tant’è, le assenze si ridussero quasi allo zero. Certo avevo rischiato: Longhi era un uomo tranquillo e ironico, però inflessibile e capace di ferirti mortalmente nella polemica”.
Dal raccontino, che la dice lunga sul carattere di Mina, traspare l’orientamento metodologico. Sintetizzato in un assunto: per arrivare alla conoscenza uno storico deve imparare a guardare, non il contrario. Guardare per capire, perché a vedere sono capaci tutti. “Agli studenti raccomando sempre di anteporre i musei e le chiese alle biblioteche, preferire alle fotografie la visione diretta delle opere. Viaggiare porta ad affinare lo spirito critico e la capacità di lettura. L’occhio è l’organo più importante per acquisire la realtà. Nel nostro mestiere sono fondamentali tre condizioni: educare l’occhio, poi educare l’occhio e infine educare l’occhio“. Domanda: le nuove generazioni ascoltano la maestra centenaria? Dietro l’angolo ci sono un rimpianto e un tradimento. “Ho scritto meno di quanto avrei voluto”, si rammarica. Non poteva andare altrimenti considerando la sua devozione all’insegnamento, a quattro generazioni di ragazzi, alla difesa arcigna dei beni culturali. Per tutelare questi valori la critica d’arte si veste da critica della società. Senza fare sconti. “Da tempo – accusa – l’università è decisamente scaduta: la responsabilità maggiore va a chi assegna le cattedre senza badare alla preparazione degli aspiranti docenti. Come accade spesso in Italia, non comanda il merito ma il clientelismo”.