Mary Walker è stata medico e chirurgo nell’esercito americano, insignita della Medal of Honor. Nacque nel 1832 e visse con ardimento le battaglie femministe, abolizioniste e proibizioniste. Un caratterino niente male: al suo matrimonio non pronunciò la parola obbedire, rifiutando il cognome del marito. Lo scatto di Paul Thompson datato 1911 la immortala come prima donna nella storia ad aver indossato i pantaloni in pubblico.
Tutto passa, tutto corre via se non lo ferma la fotografia. La frase di Paolo Panelli è perfetta per spiegare il senso di Chronorama. Tesori fotografici del 20° secolo. La mostra di Palazzo Grassi a Venezia (fino al 7 gennaio) presenta il materiale della Pinault Collection acquisito dagli archivi Condé Nast: una selezione di 407 opere realizzate tra il 1910 e il 1979, cronologicamente divise in sette decadi. La civiltà delle macchine, la società di massa, i giornali, la radio, la televisione, il frigorifero, i viaggi nello spazio. La democrazia liberale, i lager, le bombe e le macerie, i collaborazionisti, i totalitarismi.
Gente famosa e gente qualunque, momenti terribili o divertenti, vita quotidiana, sogni e tragedie del secolo breve. Lo definì così Eric Hobsbawm, incastonandolo tra la prima guerra mondiale e il crollo del comunismo: la caduta delle ideologie e delle illusioni. Secondo altri storici è stato addirittura brevissimo, inaugurato solo dall’alba livida di Hiroshima. Ma per alcuni è stato invece il più lungo, considerato che le premesse del trentennio fra i due conflitti mondiali affondano nell’Ottocento.
Che cosa è stato davvero il Novecento? L’expo in laguna aiuta a capire. Chrono, cioè il tempo, unito a orama, ovvero visione: lo sguardo di 150 testimoni su un’epoca complessa. I migliori. Maestri come Cecil Beaton, Lee Miller, Diane Arbus, Irving Penn, Helmut Newton tra i fotografi; Eduardo Garcia Benito, Helen Dryden, George Wolfe Plank fra gli illustratori. Grandi talenti della loro generazione, che hanno definito una nuova estetica sulle riviste di Condé Montrose Nast, genio dell’editoria: Vogue, Vanity Fair, The New Yorker in particolare.
Il caleidoscopio è un percorso esaltante. Ai ritratti dei personaggi si mescolano reportage, scatti di moda, architettura, nature morte. La galleria scava nella memoria collettiva, fissando i ricordi: ciascuno si ritroverà riflettendo su persone e cose, scegliendo gli scatti preferiti. Classifica impossibile. Chaplin o Joyce, Matisse o Hemingway? Oppure Mick Jagger, la Deneuve, Brando, Kennedy, Churchill. C’è Francesca Bertini, la divina del cinema muto. Ci sono i balletti russi di Diaghilev. E ancora Sophia, Mastroianni e Fellini, Dietrich e Garbo, Josephine Baker e Gloria Swanson. Joe Louis o Jesse Owens? Sorridono al visitatore Douglas Fairbanks e Mary Pickford, la fidanzata d’America.
E che spettacolo sono le esilissime icone della moda anni ’60-’70: il gamberetto Jean Shrimpton e il grissino Twiggy, simboli della Swinging London. Con la ieratica Veruschka – aristocratica, felina, un metro e novanta di statura, occhi fiordaliso, bellezza regale – top model quando la parola non esisteva.

Fuori dalle riviste patinate, decontestualizzate, le foto in bianco e nero ricompongono il mosaico di un mondo straordinario. Difficile pensare a un secolo più glamour, mescolato e inventivo di quello, malgrado la sua ferocia: il surrealismo di Dalì e la metafisica di De Chirico vestono la danza, il Cubismo contagia gli abiti dell’élite mondana europea, il Neoclassicismo del primo dopoguerra trapela dai corsetti, il Déco si declina in ogni forma. Fino ai foulard Chanel, i tailleur Schiaparelli e la minigonna, simbolo della liberazione sessuale anni ’60.
Che cosa rimane allora del Novecento? Forse uno scatto di Edward Carswell del 1941: l’ultima cena alla festa di gala della famiglia Vanderbilt, prima di lasciare il palazzo sulla Quinta strada venduto a Waldorf Astor. Il tramonto della high society. Tutto passa, tutto corre via se non lo ferma la fotografia.