Jacolby Satterwhite ha reinventato la Great Hall del Metropolitan Museum: “una poesia d’amore all’universo su musica acid house” l’ha definita il New York Times, una poesia che con i suoi toni funky stravolge la solennità dell’architettura neoclassica dell’atrio. Si intitola “A Metta Prayer”: nella tradizione buddista, un appello pacifico all’empatia, e Dio sa (qualunque Dio ci sia) quanto ne avremmo bisogno.
La creazione di Satterwhite mostra una New York immaginaria generata al computer, con proiezioni digitali su schermi diversi di un centinaio di oggetti pescati dall’inesauribile, multiforme collezione collezione permanente del museo: si va da figurine di pietra o terracotta del Neolitico o egiziane o greche, antropomorfe o in foggia di animali, a una magnifica daga medievale, a statue d’arte africana e asiatica antica e moderna, a creazioni di moda e porcellane novecentesche). Ma anche animazioni 3D e sequenze con attori; e un paesaggio surreale di nuvole che, spiega l’artista, è ispirato all’”Assunzione della Vergine” di Tiziano Vecellio (anno 1535, si trova nel Duomo di Verona). Si aggiungono musica e luci, e performance dal vivo nel corso di tutti i weekend di ottobre e novembre per la durata dell’installazione: in scena l’artista e i suoi più fedeli collaboratori.
Sattelwhite è nato nel 1986 in South Carolina, ed è un artista versatile: scena, animazione, musica, pittura scultura e fotografia si uniscono fra piattaforme software e nuove tecnologie in installazioni mediatiche che raccontano la storia dell’arte, la cultura popolare, le teorie queer e l’Estetica afrofuturista.

Ogni giorno si dedica alla meditazione trascendentale. “Sono un millennial allevato a videogame” ha raccontato al New York Times. “Uso il linguaggio, il software e la tecnologia che crea i giochi, che sono meditazioni sulla conquista e la violenza; però li capovolgo per elaborare una preghiera di amore e compassione”. Adatta, aggiunge “alla mia individualità nera, queer e irriverente”.
(A proposito di arte buddista: fino al 13 novembre al Metropolitan si può vedere la mostra “Tree & Serpent: Early Buddhist Art in India, 200 BCE-400CE).

Nella creazione di Satterwhite, le immagini di sei schermi sono proiettate sulle quattro pareti principali dell’atrio e su due ampie lunette al livello delle balconate; giochi di luci circondano le tre cupole a lucernario. L’artista ha usato modernissime tecniche di animazione – le stesse che vengono usate nei film dei supereroi – scansionando i movimenti di danzatori. Ha cambiato i colori degli schermi dei totem dei biglietti elettronici e – mai avvenuto prima, o sacrilegio – ha avuto voce in capitolo anche sui colori delle celebri, spettacolari composizioni floreali dell’atrio, che cambiano ogni settimana, fin dagli anni Sessanta, grazie alla donazione ad hoc del fondo Lila Acheson Wallace.

Insomma, un’opera ipertecnologica in voluto contrasto con la Great Hall; il magnifico salone, dove ogni anno passano cinque milioni di persone, fu inaugurato nel 1902 ed era stato progettato – come la facciata del museo – da Richard Morris Hunt, archistar dell’epoca. È nello stile della corrente Beaux Arts, che si rifaceva al neoclassicismo francese (lo insegnavano alla École des Beaux Arts di Parigi nell’Ottocento), unito a elementi gotici e rinascimentali, applicati però anche a materiali moderni, ferro e vetro.
Il Metropolitan ha deciso di usare la sua Great Hall per varie commissioni artistiche – questa è solo la seconda, e del resto, la cornice in contrasto fa risaltare le opere, basti pensare a Roma alle statue romane antiche negli ambienti industriali della Centrale Montemartini su via Ostiense. La prima installazione ufficiale nella Great Hall, nel 2019, era stata però molto più convenzionale: due quadri dell’artista canadese Kent Monkman. Chissà cosa riserba il futuro? “A Metta Prayer” sarà aperta fino al 7 gennaio.